Grido d’Onore . Морган Райс
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“Da ieri sera,” rispose Gwen.
“Ieri sera!” le fece eco Illepra, scuotendo la testa con preoccupazione. Lo esaminò a lungo in silenzio, l’espressione sempre più cupa.
“Non è preso bene,” disse alla fine.
Gli mise di nuovo una mano sulla fronte e questa volta chiuse gli occhi, respirando, molto a lungo. Un silenzio denso pervase la stanza e Gwen iniziò a perdere il senso del tempo.
“Veleno,” disse infine Illepra, gli occhi ancora chiusi, come se stesse leggendo la condizione di Godfrey per osmosi.
Gwen si meravigliava sempre della sua abilità: non si era mai sbagliata una sola volta in tutta la vita. E aveva salvato più vite di quante l’esercito ne avesse prese. Si chiedeva se fosse una capacità appresa o ereditata. Anche la madre di Illepra era stata una guaritrice, e sua nonna prima di lei. Eppure allo stesso tempo Illepra aveva trascorso ogni momento della sua vita a sperimentare pozioni e a studiare l’arte medica.
“Un veleno molto potente,” aggiunse Illepra, più sicura di sé. “Di un tipo che incontro raramente. Molto costoso. Chiunque cercasse di avvelenarlo, sapeva ciò che faceva. È incredibile che non sia morto. Quest’uomo è più forte di quanto pensiamo.”
“Gli viene da mio padre,” disse Gwen. “Aveva la costituzione di un toro. Tutti i re MacGil erano così.”
Illepra andò dall’altra parte della stanza e si mise a mescolare diverse erbe su un ripiano di legno, affettandole e macinandole e contemporaneamente aggiungendovi un liquido. Ne risultò un unguento denso e verde. Lei se ne riempì la mano, corse al fianco di Godfrey e glielo spalmò sulla gola, sotto le braccia e sulla fronte. Quando ebbe finito tornò dall’altra parte della stanza, prese un bicchiere e versò diversi liquidi: uno rosso, uno marrone e uno viola. Quando si riversarono la pozione sibilò e ribollì. Lei la rimestò con un lungo cucchiaio di legno e poi si affrettò a versarla sulle labbra di Godfrey.
Lui non si mosse. Illepra gli sollevò la testa con una mano e gli spinse il liquido tra le labbra. La maggior parte cadde fuori rigandogli le guance, ma un po’ entrò e gli andò in gola.
Illepra tamponò il liquido dalla bocca e dalla mascella, poi si ritrasse e sospirò.
“Vivrà?” chiese Gwen agitata.
“Forse,” disse lei con tono cupo. “Gli ho dato tutto quello che avevo, ma potrebbe non bastare. La sua vita è nelle mani del fato.”
“Cosa posso fare?” le chiese Gwen.
Lei si voltò e la fissò.
“Prega per lui. Sarà comunque una notte molto lunga.”
CAPITOLO CINQUE
Kendrick non aveva mai apprezzato la libertà – la vera libertà – fino a quel giorno. Il tempo trascorso chiuso nelle segrete aveva modificato il suo punto di vista sulla vita. Ora apprezzava ogni piccola cosa: la sensazione donata dal sole, il vento tra i capelli, il semplice stare all’aria aperta. Galoppare con il suo cavallo, sentire il terreno che scorreva veloce sotto di lui, essere di nuovo dentro un’armatura, avere le sue armi con lui e muoversi con i suoi compagni lo faceva sentire come se fosse stato sparato da un cannone. Provava una temerarietà mai sperimentata prima.
Kendrick galoppava, abbassandosi contro il vento, il fido compagno Atme al suo fianco, completamente grato per la possibilità di combattere insieme ai propri compagni, di non perdersi la battaglia, desideroso di liberare la sua patria dai McCloud, e fargliela poi pagare per averli invasi. Cavalcava pervaso dall’urgenza di spargere sangue, anche se era ben consapevole che il vero bersaglio della sua collera non erano i McCloud, ma suo fratello Gareth. Non lo avrebbe mai perdonato per averlo imprigionato, per averlo accusato dell’assassinio di suo padre, per averlo arrestato di fronte ai suoi uomini, e per aver tentato di mandarlo a morte. Kendrick voleva vendetta, ma dato che non poteva averla direttamente su Gareth, almeno non adesso, se la sarebbe presa sui McCloud.
Una volta tornato alla Corte del Re avrebbe comunque rimesso le cose a posto. Avrebbe fatto qualsiasi cosa in suo potere per eliminare suo fratello e mettere sul trono sua sorella Gwendolyn.
Si avvicinarono alla città saccheggiata ed enormi nuvole scure e gonfie li accolsero, riempiendo le narici di Kendrick di un odore acre di fumo. Lo addolorava vedere una città dei MacGil ridotta in quegli stati. Se suo padre fosse stato ancora vivo tutto ciò non sarebbe mai accaduto; se Gareth non gli fosse succeduto al trono non si sarebbe mai verificata una cosa del genere. Era una disgrazia, un’onta sull’onore dei MacGil e dell’Argento. Kendrick pregava che non fossero giunti troppo tardi per salvare quella gente e che i McCloud non fossero lì da troppo tempo, che non fosse stata ferita o uccisa troppa gente.
Spronò ancor più il suo cavallo, portandosi davanti agli altri mentre tutti galoppavano, come uno sciame di api, verso il cancello aperto che dava accesso alla città. Lo attraversarono, Kendrick brandendo la sua spada e preparandosi allo scontro con un contingente dell’esercito nemico. Liberò un alto grido e così fecero gli uomini attorno a lui, preparandosi all’impatto.
Ma quando ebbero attraversato il cancello e si furono ritrovati nella polverosa piazza della città, Kendrick rimase frastornato di fronte a ciò che vide: niente. Tutt’attorno c’erano evidenti segni di un’invasione – distruzione, incendi, case svaligiate, cadaveri ammassati, donne che strisciavano. C’erano animali uccisi, sangue sulle pareti. Era stato un massacro. I McCloud avevano devastato quel popolo innocente. Il solo pensiero fece venire a Kendrick la nausea. Erano dei codardi.
Ma ciò che lo stupì maggiormente mentre si guardava in giro era che dei McCloud non c’era nessuna traccia. Non riusciva a capire. Era come se l’intero esercito si fosse dileguato, come se avessero saputo che loro stavano arrivando. Gli incendi erano ancora accesi ed era chiaro che erano stati accesi per un motivo.
Nella mente di Kendrick si stava facendo strada l’idea che fosse un’esca. Che i McCloud avessero voluto appositamente attirare l’esercito dei MacGil in quel luogo.
Ma perché?
Kendrick si voltò di scatto, si guardò in giro, cercando disperatamente di capire se mancasse qualcuno dei suoi uomini, se qualche pezzo dell’esercito fosse stato trascinato da qualche altra parte, in un altro luogo. Nella mente gli scorrevano ora nuovi pensieri, una nuova sensazione che tutto ciò fosse stato organizzato per isolare un gruppo dei suoi uomini, in modo da tendere loro un’imboscata. Guardò ovunque, chiedendosi chi mancasse.
E poi capì. C’era una persona che mancava. Il suo scudiero.
Thor.
CAPITOLO SEI
Thor era in groppa al suo cavallo, in cima alla collina affiancato dal gruppo di membri della Legione e da Krohn, e guardava la spiazzante visione davanti a sé: a perdita d’occhio si dispiegavano le truppe dei McCloud, tutti a cavallo; un vasto esercito che si estendeva a macchia d’olio e sembrava non attendere che loro. Erano stati incastrati. Forg doveva averli portati lì di proposito, doveva averli traditi. Ma perché?
Thor deglutì, osservando quella che aveva tutto l’aspetto di essere morte certa.
Un grandioso grido di battaglia si levò quando improvvisamente l’esercito dei McCloud si lanciò all’attacco. Erano a poco più di cento metri da loro, e fecero presto ad avvicinarsi. Thor si diede