Obiettivo Zero . Джек Марс

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Obiettivo Zero  - Джек Марс Uno spy thriller della serie Agente Zero

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aiutarti con le tue ricerche. Qualsiasi cosa tranne…”

      “Ricerche,” ripeté piano Cheval. “No, dottore. Non sono le ricerche a interessarmi. La mia gente sta aspettando, e non sono persone pazienti.”

      Gli occhi di Cicero si riempirono di lacrime. “Non verrà niente di buono da questo. Lo sai.”

      “Si sbaglia,” disse il giovane. “Molti moriranno, è vero. Ma moriranno nobilmente, aprendo la strada a un futuro migliore.” Cheval distolse lo sguardo. Non voleva sparare al vecchio dottore gentile. “Ma aveva ragione su una cosa. La mia Claudette, lei è reale. E la lontananza rafforza davvero l’amore. Devo andare ora, Cicero, e così anche lei. Ma la rispetto, e sono disposto a esaudire un ultimo desiderio. C’è qualcosa che vorrebbe dire alla sua Phoebe? Ha la mia parola che consegnerò il messaggio.”

      Cicero scosse lentamente la testa. “Non rischierei mai di mandare un mostro come te sulla sua strada, per nessun messaggio al mondo.”

      “Molto bene. Addio, dottore.” Cheval alzò la PA-15 e gli sparò un singolo colpo alla fronte. La ferita schiumò, e l’anziano dottore barcollò e collassò sulla tundra.

      Nel silenzio scioccante che seguì, Cheval si prese un momento e in ginocchio mormorò una breve preghiera. Poi si mise al lavoro.

      Ripulì la pistola dalle impronte e dalla polvere e la gettò nel gelido fiume Kolyma. Poi spinse i quattro corpi nella fossa insieme al dottor Scott. Con una pala e un picchetto, passò novanta minuti a coprire i cadaveri e il braccio decomposto esposto con la terra parzialmente gelata. Smontò il sito dello scavo, estraendo i picchetti e strappando il nastro. Fece con calma, lavorando meticolosamente; nessuno avrebbe tentato di contattare il team di ricerca per almeno altre otto o dodici ore, e ne sarebbero passate altre ventiquattro prima che la WHO mandasse qualcuno al sito. Un’indagine avrebbe di certo rivelato i corpi sepolti, ma Cheval non aveva intenzione di render loro le cose facili.

      Infine, prese le fiale di vetro che contenevano i campioni del braccio in decomposizione e le infilò con cura, una alla volta, nei tubi di gommapiuma all’interno della scatola in acciaio inossidabile, acutamente consapevole del letale potere di ciascuna di loro. Poi richiuse i quattro ganci e riportò i campioni all’accampamento.

      Nella camera sterile improvvisata, Cheval entrò nella doccia di decontaminazione portatile. Sei erogatori lo spruzzarono da ogni singola angolazione con una miscela di acqua bollente e un emulsionante. Una volta che ebbe finito, con cura e metodo si sfilò la tuta protettiva gialla, abbandonandola sul pavimento della tenda. Era possibile che i suoi capelli o la sua saliva, fattori che avrebbero potuto identificarlo, fossero dentro la tuta, ma aveva ancora una cosa da fare.

      Nel retro della jeep fuoristrada di Cicero c’erano due taniche rosse rettangolari piene di benzina. Gliene sarebbe servita solo una per tornare alla civiltà. L’altra la versò liberamente nella camera sterile, sulle quattro tende di neoprene e la tettoia.

      Poi gli diede fuoco. Subito si scatenarono le fiamme, alzando un fumo nero e unto verso il cielo. Cheval salì sulla jeep con la scatola d’acciaio per campioni e si allontanò. Non prese velocità, e non guardò nello specchietto retrovisore per vedere l’incendio nel sito. Guidò con calma.

      L’Imam Khalil sarebbe stato in attesa. Ma il giovane francese aveva ancora molto da fare prima che il virus fosse pronto.

      CAPITOLO UNO

      Reid Lawson sbirciò attraverso le veneziane del suo studio per la decima volta in meno di due minuti. Stava diventando ansioso; l’autobus sarebbe dovuto già arrivare.

      Il suo studio era al secondo piano, il più piccolo delle tre camere della loro nuova casa a Spruce Street in Alexandria, Virginia. Era un contrasto piacevole rispetto allo sgabuzzino stretto e soffocante che aveva usato come ufficio nel Bronx. Aveva già tolto dalle scatole metà dei suoi averi; il resto era ancora chiuso nei cartoni sparsi per la stanza. Le librerie erano state montate ma i libri erano impilati in ordine alfabetico sul pavimento. Le uniche cose che si era preso il tempo per sistemare e organizzare adeguatamente erano la sua scrivania e il computer.

      Reid si era detto che quello sarebbe stato il giorno in cui finalmente avrebbe fatto ordine, quasi un mese intero dopo aver traslocato, e in cui avrebbe finito di disimballare l’ufficio.

      Era riuscito ad aprire una scatola. Almeno era un inizio.

      L’autobus non è mai in ritardo, pensò. È sempre qui tra le tre e ventitré e le tre e venticinque. Sono le tre e trentuno.

      Le chiamo.

      Prese il cellulare dalla scrivania e compose il numero di Maya. Mentre squillava si aggirò avanti e indietro per la stanza, cercando di non pensare a tutte le cose tremende che potevano essere accadute alle sue figlie nel tragitto tra la scuola e la casa.

      La chiamata finì nella segreteria.

      Allora fece di corsa le scale fino all’ingresso e si infilò una giacca leggera; il mese di marzo in Virginia era decisamente più mite che a New York, ma era comunque fresco. Con le chiavi dell’auto in mano, inserì il codice di sicurezza di quattro cifre sul pannello a muro per armare il sistema d’allarme in modalità ‘fuori di casa’. Conosceva il percorso preciso che compiva l’autobus, poteva seguirlo fino al liceo se necessario, e…

      Non appena aprì la porta di casa, lo scuolabus giallo brillante si fermò con un sibilo davanti al suo vialetto.

      “Beccato,” mormorò Reid. Non poteva ritornare dentro. Lo avevano già notato di sicuro. Le sue due figlie adolescenti erano uscite dal bus e stavano attraversando il marciapiede. Mentre il mezzo si allontanava raggiunsero la porta che lui stava bloccando.

      “Ciao, ragazze,” disse lui il più allegramente possibile. “Come è andata la scuola?”

      La figlia maggiore, Maya, gli lanciò uno sguardo sospettoso incrociando le braccia sul petto. “Dove stai andando?”

      “Uhm… a prendere la posta,” rispose.

      “Con le chiavi della macchina?” La ragazza gli indicò il pugno, nel quale stringeva le chiavi del SUV argentato. “Raccontane un’altra.”

      Già, pensò lui. Beccato. “L’autobus era in ritardo. E ti ricordi quello che ho detto, che se siete in ritardo dovete chiamare. E perché non rispondevi al telefono? Ho provato a chiamare…”

      “Sei minuti, papà.” Maya scosse la testa. “Sei minuti non è ‘ritardo’. Sei minuti è il traffico. C’era un ingorgo sulla Vine.”

      Reid si fece da parte per lasciarle entrare in casa. La figlia più giovane, Sara, gli diede un rapido abbraccio e gli mormorò: “Ciao, papà.”

      “Ciao, tesoro.” Richiuse la porta dietro di loro, girò la chiave e inserì di nuovo il codice nel sistema d’allarme prima di rigirarsi verso Maya. “Traffico o meno, voglio che tu mi faccia sapere quando siete in ritardo.”

      “Sei nevrotico,” borbottò la ragazza.

      “Chiedo scusa?” Reid sbatté le palpebre in un’espressione sorpresa. “Sembra che tu stia confondendo la nevrosi con la preoccupazione.”

      “Oh, per favore,” ribatté Maya. “Non ci hai perse di vista per settimane. È così da quando sei tornato.”

      Come al solito aveva ragione. Reid era sempre stato un padre protettivo, e lo era diventato

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