La Forgia del Valore . Морган Райс

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La Forgia del Valore  - Морган Райс Re e Stregoni

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avrebbe voluto dirgli. Voleva chiedergli perché avrebbe rischiato la sua vita per lei, perché gli interessasse così tanto di lei, perché si sarebbe sacrificato per portarla indietro. Sentiva che aveva effettivamente fatto un grosso sacrificio per lei, un sacrificio che in qualche modo gli avrebbe nociuto.

      Ma più di tutto voleva che lui sapesse ciò che lei stava provando in quel preciso istante.

      Ti amo, voleva dirgli.

      Ma le parole non venivano fuori. Fu invece sopraffatta da un’ondata di stanchezza e mentre gli occhi le si chiudevano, non ebbe altra scelta che cedere. Si sentì cadere in un sonno sempre più profondo, il mondo le scorreva accanto e si chiese se stesse per caso morendo di nuovo. Era stata riportata indietro solo per un momento? Era tornata un’ultima volta solo per dire addio a Kyle?

      E quando il profondo torpore finalmente la sopraffece, fu quasi certa di udire poche ultime parole prima di cedere del tutto:

      Anch’io ti amo.

      CAPITOLO CINQUE

      Il piccolo drago volava sofferente, ogni battito di ali era uno sforzo indicibile, ormai da ore al di sopra della campagna di Escalon. Si sentiva perso e solo in quel mondo crudele nel quale era nato. Nella mente gli lampeggiavano le immagini del padre morente, steso a terra con gli occhi che si chiudevano, trafitto a morte da tutti quei soldati. Suo padre, che non aveva mai avuto la possibilità di conoscere eccetto che in quel momento di gloriosa battaglia. Suo padre, che era morto salvandolo.

      Il piccolo drago sentiva la morte di suo padre come la propria e a ogni battito d’ali si sentiva ardere sempre di più per la colpa. Se non fosse stato per lui, suo padre probabilmente sarebbe stato vivo in quel momento.

      Il drago volava, lacerato dal dolore e dal rimorso all’idea che non avrebbe mai avuto la possibilità di conoscere suo padre, di ringraziarlo per il suo generoso atto di valore, per avergli salvato la vita. Una parte di lui stesso non voleva più vivere.

      Ma un’altra parte ardeva di rabbia, era disperatamente desiderosa di uccidere tutti quegli umani, di vendicare suo padre e distruggere la terra sotto di sé. Non sapeva dove si trovava, ma percepiva intuitivamente di essere a oceani di distanza dalla sua terra madre. Un qualche istinto lo guidava verso casa, ma non sapeva dove questa fosse.

      Il piccolo drago volava senza meta, così perso nel mondo, soffiando fuoco contro le cime degli alberi, contro qualsiasi cosa trovasse. Presto esaurì le fiamme, e subito dopo si trovò a scendere sempre più in basso a ogni battito d’ali. Cercò di risollevarsi e salire, ma scoprì con spavento che non ne aveva più la forza. Cercò di evitare le cime degli alberi, ma le ali non lo potevano più sorreggere e vi andò a sbattere contro, dolendo per tutte le ferite che non si erano ancora rimarginate.

      Dolorante rimbalzò e continuò a volare, l’elevazione sempre più precaria man mano che perdeva la forza. Gocciolava sangue che cadeva come gocce di pioggia di sotto. Era debole per la fame, per le ferite, per le migliaia di colpi di lancia che aveva ricevuto. Voleva continuare a volare, trovare un bersaglio di distruzione, ma sentiva che gli si chiudevano gli occhi, ora troppo pesanti per lui. Sentiva che stava a tratti perdendo e riprendendo conoscenza.

      Sapeva che stava morendo. Da un lato era una specie di sollievo: si sarebbe riunito a suo padre.

      Fu risvegliato dal fruscio delle foglie e dallo scricchiolio di rami mentre andava a sbattere di nuovo contro le cime degli alberi. Quindi finalmente riaprì gli occhi. La vista era offuscata da un mondo totalmente verde. Non più capace di controllarsi si sentì ruzzolare, spezzare rami e provare sempre più dolore a ogni colpo.

      Alla fine si fermò bruscamente in cima a un albero, incastrato tra i rami, troppo debole per lottare. Rimase appeso lì, immobile, troppo dolorante per muoversi. Ogni respiro faceva più male del precedente. Era certo che sarebbe morto lassù, in quel groviglio di rami.

      Improvvisamente uno dei rami cedette con un forte schiocco e il drago precipitò. Ruotò su se stesso più volte, cadendo da una buona quindicina di metri, fino a che colpì il terreno.

      Rimase lì, sentendo tutte le costole come rotte e respirando sangue. Mosse un’ala lentamente, ma non riuscì a fare molto di più.

      Mentre sentiva che la forza vitale lo stava abbandonando, lo trovò ingiusto, prematuro. Sapeva di avere un destino, ma non capiva quale fosse. Sembrava essere breve e crudele, venuto al mondo solo per assistere alla morte di suo padre e poi morire lui stesso. Forse era così che andava la vita: crudele e ingiusta.

      Sentendo gli occhi che si chiudevano per un’ultima volta, il drago si trovò la mente riempita da un ultimo pensiero: Padre, aspettami. Ci vedremo presto.

      CAPITOLO SEI

      Alec si trovava sul pontile, aggrappato al parapetto della scivolosa nave nera, intento a guardare il mare come faceva ormai da giorni. Guardava le onde enormi che si alzavano e abbassavano sollevando la loro piccola barca. Guardava la schiuma che si formava sotto lo scafo mentre fendevano l’acqua a una velocità mai provata. La barca si inclinava con le vele gonfie di vento, le folate forti e regolari. Alec studiava la situazione con occhi da artigiano, chiedendosi di cosa fosse fatta quell’imbarcazione: era chiaramente costruita di un insolito materiale viscido, un materiale che non aveva mai visto prima e che aveva permesso loro di mantenere la velocità per tutto il giorno e per tutta la notte, di sgusciare nel buio nel mezzo della flotta pandesiana e di procedere nel Mare dei Dispiaceri e arrivare poi al Mare di Lacrime.

      Mentre Alec rifletteva, riportava alla mente quanto quel viaggio fosse stato tormentoso: un viaggio navigando giorno e notte, le vele mai calate, le lunghe nottate in mezzo al mare nero piene di rumori ostili, di cigolii e stridii della barca e delle esotiche creature che lì intorno balzavano e volavano. Più di una volta si era svegliato vedendo un serpente luccicante che cercava di salire a bordo, fermato dal suo compagno di viaggio che lo rispediva in acqua con un calcio.

      Ma l’elemento più misterioso di tutti, anche più di qualsiasi esotica forma di vita marina, era Sovos, l’uomo che si trovava al timone della nave. Quell’uomo che aveva tratto Alec fuori dalla forgia, che lo aveva portato su quella barca, che lo stava portando in qualche posto lontano, un uomo che Alec si chiedeva se fosse follia seguire. Fino a quel momento almeno Sovos gli aveva già salvato la vita. Alec ricordava di aver guardato verso la città di Ur mentre si allontanavano in mare, provando dolore, sentendosi inutile mentre vedeva la flotta pandesiana avvicinarsi. Dall’orizzonte aveva visto le palle di cannone volare in aria, aveva udito il lontano rimbombo, aveva visto il crollo dei grandiosi edifici, edifici nei quali lui stesso era stato solo poche ore prima. Aveva cercato di abbandonare la nave, di andare a prestare il suo aiuto, ma in quel momento erano tutti troppo distanti ormai. Aveva insistito perché Sovos si girasse, ma le sue implorazioni erano andate a sbattere contro un muro sordo.

      Alec si sentiva straziato all’idea che tutti i suoi amici si trovassero lì, soprattutto Marco e Dierdre. Chiuse gli occhi e cercò, senza successo, si scacciare quei ricordi dalla mente. Gli si stringeva il petto al pensiero di averli traditi e abbandonati tutti.

      L’unica cosa che lo spingeva ancora avanti, che lo scuoteva dal suo scoraggiamento, era la sensazione che altrove ci fosse bisogno di lui, come Sovos aveva insistito. Il pensiero di avere un destino sicuro, di poterlo usare per distruggere i Pandesiani da qualche altra parte. Dopotutto, come Sovos aveva detto, essere morto là dietro con il resto della gente non avrebbe aiutato nessuno. Eppure sperava e pregava ancora che Marco e Dierdre fossero sopravvissuti e che un giorno si sarebbero ritrovati.

      Curioso di sapere dove stessero andando, Alec aveva tormentato Sovos con domande, ma questi era rimasto testardamente in silenzio, sempre al timone – giorno e notte – dandogli le

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