Lo Senti Il Mio Cuore?. Andrea Calo'

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Lo Senti Il Mio Cuore? - Andrea Calo'

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sulle mie gambe, aggiungendo un tono di rassegnazione alla mia sconfitta e rimanendo in attesa che il mio avversario mi infliggesse il colpo di grazia, per finirmi come avrebbe fatto un gladiatore nell’arena dopo aver ottenuto il permesso di uccidere da parte del suo imperatore, per placare la sua sete di sangue. Ma questa volta l’imperatore mi graziò, il pollice era rimasto rivolto verso l’alto, la folla non gridava perché non aveva visto il sangue uscire dalle mie membra lacerate dal ferro freddo della spada, per fermarmi il cuore e cancellarmi definitivamente dal mondo dei viventi. Il gladiatore, il mio avversario, mi aveva allungato invece la sua mano per aiutarmi a rialzarmi. Ed io, fortunata vittima di un crudo spettacolo per adulti, l’afferrai e mi lasciai sollevare da lei, respirando e ammirando nuovamente quanto fosse bella la luce del sole che risplende in un cielo azzurro e sgombero dalle nuvole. Non ci sarebbe stata pioggia quel giorno, meglio così.

      «Io mi chiamo Cindy».

      «Melanie».

      «Melanie, è un bel nome. Posso chiamarti Mel?».

      «Può. Mi chiami pure come meglio crede».

      «Sei sicura che non ti dia fastidio?».

      «No, non mi da fastidio, altrimenti glie lo direi».

      «Io ho venticinque anni Mel!».

      Non risposi. Non volevo ricordare quanti anni avessi in quel momento.

      «Lo sai che cosa significa questo?».

      «Non ne ho idea. Forse significa che lei è nata venticinque anni fa?».

      «Acuta osservazione Mel! Ma quella è solo aritmetica, non ha nulla a che vedere con ciò che intendevo dire. Intendevo dire che sono giovane».

      «Sono felice per lei Cindy, io invece sono più vecchia, ho trentacinque anni». Sobbalzai quando realizzai che inavvertitamente avevo esternato un particolare della mia vita che non avrei avuto alcuna intenzione di condividere con altri. Le avevo detto la mia età, consegnando nelle sue mani la scatola che conteneva la mia esistenza, anche la parte che avevo con tanta fatica cercato di dimenticare.

      «Bene, siamo quasi coetanee allora».

      «Beh, non direi. Abbiamo ben dieci anni di differenza».

      «E che sarà mai! Facciamo parte della stessa generazione. Quella dei Beatles, Elvis, Jeans e camicette sbottonate, brillantina nei capelli e Cadillac! Hai sentito “A hard day’s night”, la nuova canzone dei Beatles?».

      «Si, certo che l’ho sentita! Adoro i Beatles», confidai nuovamente sorpresa.

      «Anche io li adoro! E poi loro sono ragazzi troppo belli. Mio Dio come me li farei!», affermò prima di mettersi a canticchiare il motivo con una buona intonazione.

      «Mel, dammi del tu dai! Non ti mangio, stai tranquilla».

      Rimasi ferma a pensare per troppo tempo, come se la scelta sul da farsi, se accettare o meno la sua proposta, fosse una questione di vita o di morte. Eppure sarebbe stata una cosa banale per una persona “normale”, una scelta da farsi d’istinto. L’istinto che guida gli animali e che io non avevo mai coltivato. Cindy mi guardò, in attesa di una mia risposta. Il mio silenzio e la mia reticenza l’avevano un po’ spiazzata.

      «Va bene». Le sorrisi, quasi a volerla premiare per la sua attesa, in risposta alle mille domande che potevano averle affollato la mente in quegli istanti. Forse aspettavo proprio che mi chiedesse lei di farlo, scardinando la cassaforte nella quale mi ero rinchiusa da sola, ridonandomi l’ossigeno e, forse, qualche residuo sussulto di vita. Forse Cindy mi considerava al pari di una pazza, una persona con urgente bisogno di aiuto. E avrebbe avuto ragione.

      «Dove vai?».

      Domanda inopportuna e dalla difficile risposta per me. Tuttavia ormai ero già compromessa. Una confessione in più da parte mia non avrebbe di certo distorto la mia immagine più di quanto non lo fosse già. Non avrebbe di certo modificato il percorso del mio destino. Tuttavia mantenni un certo riserbo mentre le rispondevo.

      «Vado a Cleveland».

      «A Cleveland! Ma è fichissimo! Io sono di Cleveland, sto tornando a casa mia!».

      Mi sentii come investita da uno schiacciasassi, da una di quelle macchine infernali usate per pressare l’asfalto sulle strade e che rendono il catrame liscio e sottile come una lastra di vetro. Ma questa volta il catrame nero sparso a terra e poi compresso ero io.

      «Ah!». Fu l’unico suono che riuscii a produrre con le mie corde vocali impietrite.

      «E dove alloggerai?».

      Ecco, un nuovo squarcio si apriva nella voragine già sanguinante. Che cosa le avrei risposto? Che non avevo una meta precisa? Che in realtà non avevo una casa in cui stare ma me ne sarei andata a spasso per le strade come una barbona alla ricerca di un posto a basso costo per dormire? Ecco l’idea! Avrei potuto dirle che sarei rimasta a Cleveland solo per un breve periodo, che ero solo di passaggio! Così avrei avuto anche la scusa per cavarmi d’impiccio e scappar via da lei in qualunque momento, per riguadagnare la mia vita! La mia vita! Si, ma quale vita? Ne avevo davvero una?

      «Starò in un hotel. Sono solo di passaggio, ci starò solo per qualche giorno», risposi, fiera di aver imboccato per la prima volta la strada giusta, di aver deciso da sola sul da farsi. Era una sensazione nuova per me, dannatamente potente, prodigiosa, una valanga di energia.

      «Oh, capisco. Per pochi giorni. Bene, allora puoi venire a stare da me, a casa mia!».

      «No, ci mancherebbe altro! Non voglio essere d’impiccio per nessuno io. Ringrazio per l’offerta ma mi dispiace, davvero non la posso accettare».

      «Ma quale impiccio, Mel! Noi dell’Ohio siamo fatti così! Guai a rifiutare la nostra ospitalità».

      «Noi del West Virginia invece siamo un po’ diversi».

      «Dal West Virginia! Vieni da lì? Da quale città?».

      La mia vita ormai era diventata di dominio pubblico. Persino l’anziano uomo aveva abbassato il suo giornale per vedere la faccia di quella fuggiasca che stava riempiendo l’aria di quello spazio angusto con le sue parole. Senza difese vomitai anche quello.

      «Fico!».

      «Ma cosa significa “fico”?».

      «Significa “bello”, “forte”! Ma dove vivi scusa? Non hai mai sentito questa parola?».

      Le mentii dicendole che l’avevo sentita ma che non l’avevo mai fatta rientrare nel mio dizionario, quindi mi ero disinteressata del suo vero significato. In realtà conoscevo benissimo il significato di quella parola usata per lo più dagli adolescenti, ciò che non capivo era che cosa ci trovasse lei di così “fico” nelle cose che le dicevo. Perché quella ragazza riusciva a trovare del bene o del bello in cose, paesi o situazioni che io avevo odiato da sempre? Cominciai a pensare che forse restare un po’ di tempo con lei mi avrebbe fatto bene. Forse avrei potuto imparare a vivere un po’, rubando lezioni di vita gratuite da una ragazza più giovane di me, come una parassita sociale. Forse lei davvero sapeva come si dovesse vivere nel mondo, in questo mondo del quale facevamo entrambe parte con le nostre innumerevoli diversità.

      «E tu dove vivi?», le chiesi.

      «Sulle sponde del lago Erie. E’ un posto molto bello, soprattutto la sera quando i rumori della città si attenuano e senti solo

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