Lo Senti Il Mio Cuore?. Andrea Calo'

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Lo Senti Il Mio Cuore? - Andrea Calo'

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lì tranquilla, beatamente cullata dai suoi sogni. Poi il treno cominciò a rallentare, accompagnato dallo stridio fastidioso prodotto dalle ruote e dai freni, quello che anticipa l’arrivo nella stazione. Cindy si svegliò e stirò le braccia come facevo anche io ogni mattino da bambina nei primi secondi che seguivano il risveglio, quando ancora le paure della notte non erano ricomparse nella mia testa per ricordarmi quale fosse la mia realtà. Mi sorrise.

      «Sono crollata come una pera, scusami!».

      Ricambiai il suo sorriso con il mio. Ero sincera e meravigliata di esserlo al tempo stesso.

      «Ti sei riposata un po’», confermai. Lei annuì.

      «Tu che cosa hai fatto?».

      «Ho guardato fuori dal finestrino».

      «Per tutto il tempo? Quanto ho dormito?».

      Guardai l’orologio.

      «Quasi due ore».

      «Però! Niente male!».

      Non capivo a cosa si riferisse. Cosa non era “male”? Il fatto di aver dormito per quasi due ore sopra un ammasso di ferraglia in movimento in mezzo alla campagna dell’Ohio? La guardai aggrottando la fronte.

      «Il tuo orologio! Niente male!».

      «Ah, grazie. E’ un regalo».

      «Del tuo uomo?».

      Abbassai lo sguardo. Quella ragazza stava lentamente dissotterrando tutti i cadaveri che io con pazienza e dedizione avevo a fatica ricoperto di terra e dimenticato. Risposi, a metà.

      «Non ho un uomo, sono sola. E’ un regalo dei miei ex colleghi dell’ospedale, me lo hanno dato il giorno in cui ho lasciato il lavoro, durante la festa di addio».

      Lei mi guardò, squadrandomi dalla testa ai piedi. Mi stava osservando, mi sentivo studiata nei dettagli, come una cavia da laboratorio alla quale fosse stato iniettato un virus letale e si fosse voluto misurare il tempo necessario per vederla morire. Improvvisamente mi parve disinteressata al mio orologio, ora era concentrata su di me, sul mio aspetto, sulla mia infelicità così come lei la percepiva in quel momento. Forse stava pensando di “sacrificarsi” per me, di prendere in mano le redini della mia vita per condurla da qualche parte. La “mia” vita, ancora una volta. Alzai le mie barriere o quel poco che ne restava, non volevo tornare a soffrire. Ero ormai esperta e riconoscevo i sintomi che anticipano l’arrivo della sofferenza con assoluta sicurezza. In quanto a sofferenza ero davvero infallibile, una sulla quale si poteva davvero contare. Decisi che il nostro sarebbe stato solo un incontro per un viaggio. Non sarei andata da lei, a casa sua. O forse anche si, per poche ore, pochi giorni, pochi anni o forse per sempre.

      Il treno si fermò e una voce registrata diffusa nelle carrozze annunciò che eravamo arrivati. Cindy si alzò, si aggiustò per bene la camicia nei pantaloni. Era stranamente in ordine nonostante le tante ore che aveva passato seduta sulla sua poltrona. Sentii il suo profumo. Era fresco, come appena messo. In quel momento notai le due grandi valige che aveva portato con sé in quel viaggio, mi meravigliai di come avesse potuto trasportarle da sola, senza l’aiuto di nessuno. Mi alzai e sentii che il mio corpo rilasciava invece un cattivo odore di sudore. Mi vergognai al punto che decisi di sedermi nuovamente. Avrei aspettato che lei fosse uscita dal vagone per rialzarmi senza timore di battezzare l’aria con la mia fragranza di fogna. Ma lei non badò affatto a me. Forse aveva capito il mio problema, o forse no. Non lo seppi mai.

      «Io vado avanti, ci vediamo qua fuori», mi disse con un sorriso.

      «Va bene, prendo la mia valigia e ti raggiungo subito».

      Lei mi guardò mentre allungavo le braccia verso lo scomparto posto in alto, sopra la mia testa. Non si mosse.

      «Tutto qui? Questo è tutto il tuo bagaglio?».

      «Si. Ho portato poche cose. Il resto l’ho lasciato a casa, non mi servirà molto qui». Lei mostrò il lato perplesso della sua espressione.

      «Se lo dici tu Mel! Dai forza, andiamo prima che il cavallo decida di ripartire con gli asini sopra!».

      «Scusa?».

      «Nulla, è un modo di dire locale! Noi saremmo gli asini, tutto qui!».

      Scoppiò a ridere, era evidentemente felice di essere ritornata a casa, la sua casa, per ricondurre la vita, la sua vita. E per trascinarsi dietro anche i resti sgualciti della mia esistenza. Camminava davanti a me e io la seguivo, come un cane legato ad un invisibile guinzaglio segue il suo padrone. Ammiravo quanto fosse bello il suo corpo di giovane venticinquenne, ne invidiavo il fisico che sembrava essere stato creato dalle mani sapienti di uno scultore. Il suo seno era generoso, il sedere sodo, le belle gambe lunghe e dritte accomodavano perfettamente i suoi jeans stretti. Toccai per un attimo i miei fianchi e la mia fantasia subito svanì. Rimase solo l’invidia a tenermi per mano, ancora una volta, e non l’ultima.

      Durante gli anni trascorsi al college riuscii nonostante tutto a prendermi delle piccole soddisfazioni personali. Ero una studentessa modello, una di quelle ragazze sempre in ordine, con il colletto della divisa pulito e ben stirato, preparata, sempre al passo con le lezioni e i compiti ben fatti. Oltre a tutto ciò io non comunicavo. Per mia scelta, ma anche per necessità, non entrai mai a far parte di uno dei tanti branchi che popolavano il campus. E per questo motivo, credo, venni invidiata e additata come una ruffiana dalla maggior parte delle mie compagne, una di quelle che dietro una faccia d’angelo nasconde tanti interessi personali e secondi fine. Alcune di queste voci si fecero sempre più insistenti nel tempo e una di queste, forse la più infamante per una donna di quell’epoca, arrivò all’orecchio del rettore. Lui conosceva bene il mio percorso di studi, i miei successi scolastici e il mio comportamento, sia in istituto che fuori. Ma soprattutto conosceva bene mio padre e il suo carattere. Avevano combattuto insieme, anche lui ricordava la scena straziante di mio padre che teneva l’amico e compagno di battaglia morente tra le sue braccia, cercando di trattenere le lacrime, la disperazione e la paura. Ma quell’uomo una volta ritornato a casa dai suoi cari era riuscito a dimenticare tutto, aveva intrapreso una brillante carriera accademica per poi diventare il rettore di quello stesso istituto. Forse proprio per questo motivo si preoccupò di tenermi sotto la sua ala protettrice, difendendomi da tutto e da tutti. Ma per la carica che copriva nell’istituto non poteva darlo a vedere pubblicamente. Un giorno mi chiamò nel suo ufficio con la banale scusa di chiedermi quali intenzioni avessi per il mio futuro e per propormi un’attività di ricerca da svolgere in istituto al completamento dei miei studi. Mi parlò delle brutte voci che aveva sentito sul mio conto e che le erano state riferite da una inserviente, a detta sua.

      «Melanie, girano strane voci qui dentro che tendono a metterti in cattiva luce. Volevo chiederti se ne sei al corrente e cosa ne pensi. Io ti conosco piuttosto bene e so chi sei e come ti comporti. Queste voci però devono essere messe a tacere e in fretta, prima che sia troppo tardi».

      Ero perfettamente a conoscenza di quelle voci, una delle tante capobranco me le aveva praticamente sbattute in faccia una volta, dandomi della “puttana” in seguito ad un piccolo battibecco che avevamo avuto. Ma decisi di non ammettere nulla perché volevo rimanere al di fuori di tutto. Credevo di essere molto abile nel nascondere la verità, sicura del fatto che nessuno mai avrebbe scoperto le mie menzogne. O meglio, le mie “non verità”. Non avrei accettavo l’aiuto di nessuno, soprattutto se offertomi da un amico di mio padre o da chiunque altro avesse condiviso anche la minima cosa con lui. Scossi il capo ammettendo la mia ignoranza.

      «Si dice in giro che sei stata vista mentre praticavi prestazioni poco convenienti per una ragazza nubile della tua età ad uno dei ragazzi del nostro servizio di sicurezza».

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