Il fu Mattia Pascal. Луиджи Пиранделло

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Il fu Mattia Pascal - Луиджи Пиранделло

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potesse più esser di lui che sua, non ostante che egli si ostinasse a dir di no. Ma se ne poteva far la prova? Oliva, sposando, aveva giurato a sè stessa di mantenersi onesta, e non voleva, neanche per riacquistar la pace, venir meno al giuramento.

      Come le so io queste cose? Oh bella, come le so!… Ho pur detto che ella veniva a sfogarsi a casa nostra; ho detto che la conoscevo da ragazza; ora la vedevo piangere per l’indegno modo d’agire e la stupida e provocante presunzione di quel laido vecchiaccio, e… . debbo proprio dir tutto? Del resto, fu no; e dunque basta.

      Me ne consolai presto. Avevo allora, o credevo d’avere (ch’è lo stesso) tante cose per il capo. Avevo anche quattrini, che ― oltre al resto ― forniscono pure certe idee, le quali senza di essi non si avrebbero. Mi ajutava però maledettamente a spenderli Gerolamo II Pomino, che non ne era mai provvisto a sufficienza, per la saggia parsimonia paterna.

      Mino era come l’ombra nostra; a turno, mia e di Berto; e cangiava con meravigliosa facoltà scimmiesca, secondo che praticava con Berto o con me. Quando s’appiccicava a Berto, diventava subito un damerino; e il padre allora, che aveva anche lui velleità d’eleganza, apriva un po’ la bocca al sacchetto. Ma con Berto ci durava poco. Nel vedersi imitato finanche nel modo di camminare, mio fratello perdeva subito la pazienza, forse per paura del ridicolo, e lo bistrattava fino a cavarselo di torno. Mino allora tornava ad appiccicarsi a me; e il padre a stringer la bocca al sacchetto.

      Io avevo con lui più pazienza, perchè volentieri pigliavo a godermelo. Poi me ne pentivo. Riconoscevo d’aver ecceduto per causa sua in qualche impresa, o sforzato la mia natura o esagerato la dimostrazione de’ miei sentimenti per il gusto di stordirlo o di cacciarlo in qualche impiccio, di cui naturalmente soffrivo anch’io le conseguenze.

      Ora Mino, un giorno, a caccia, a proposito del Malagna, di cui gli avevo raccontato le prodezze con la moglie, mi disse che aveva adocchiato una ragazza, figlia d’una cugina del Malagna appunto, per la quale avrebbe commesso volentieri qualche grossa bestialità. Ne era capace; tanto più che la ragazza non pareva restìa; ma egli non aveva avuto modo finora neppur di parlarle.

      – Non ne avrai avuto il coraggio, va’ là! ― dissi io ridendo.

      Mino negò; ma arrossì troppo, negando.

      – Ho parlato però con la serva, ― s’affrettò a soggiungermi. ― E n’ho saputo di belle, sai? M’ha detto che il tuo Malanno lo han lì sempre per casa, e che, così all’aria, le sembra che mediti qualche brutto tiro, d’accordo con la cugina, che è una vecchia strega.

      – Che tiro?

      – Mah, dice che va lì a piangere la sua sciagura, di non aver figliuoli. La vecchia, dura, arcigna, gli risponde che gli sta bene. Pare che essa, alla morte della prima moglie del Malagna, si fosse messo in capo di fargli sposare la propria figliuola e si fosse adoperata in tutti i modi per riuscirvi; che poi, rimasta delusa, n’abbia detto di tutti i colori all’indirizzo di quel bestione, nemico dei parenti, traditore del proprio sangue, ecc., ecc., e che se la sia presa anche con la figliuola che non aveva saputo attirare a sè lo zio. Ora, infine, che il vecchio si dimostra tanto pentito di non aver fatto lieta la nipote, chi sa qual’altra perfida idea quella strega può aver concepito.

      Mi turai gli orecchi con le mani, gridando a Mino:

      – Sta’ zitto!

      Apparentemente, no; ma in fondo ero pur tanto ingenuo, in quel tempo. Tuttavia ― avendo notizia delle scene ch’erano avvenute e avvenivano in casa Malagna ― pensai che il sospetto di quella serva potesse in qualche modo esser fondato; e volli tentare, per il bene d’Oliva, se mi fosse riuscito d’appurare qualche cosa. Mi feci dare da Mino il recapito di quella strega. Mino mi si raccomandò per la ragazza.

      – Non dubitare, ― gli risposi. ― La lascio a te, che diamine!

      E il giorno dopo, con la scusa d’una cambiale, di cui per combinazione quella mattina stessa avevo saputo dalla mamma la scadenza in giornata, andai a scovar Malagna in casa della vedova Pescatore.

      Avevo corso apposta, e mi precipitai dentro tutto accaldato e in sudore.

      – Malagna, la cambiale!

      Se già non avessi saputo ch’egli non aveva la coscienza pulita, me ne sarei accorto senza dubbio quel giorno vedendolo balzare in piedi pallido, scontraffatto, balbettando:

      – Che… che cam… , che cambiale?

      – La cambiale così e così, che scade oggi… Mi manda la mamma, che n’è tanto impensierita!

      Batta Malagna cadde a sedere, esalando in un ah interminabile tutto lo spavento che per un istante lo aveva oppresso.

      – Ma fatto!… tutto fatto!… Per bacco, che soprassalto… L’ho rinnovata, eh? a tre mesi, pagando i frutti, s’intende. Ti sei davvero fatta codesta corsa per così poco?

      E rise, rise, facendo sobbalzare il pancione; m’invitò a sedere; mi presentò alle donne.

      – Mattia Pascal. Marianna Dondi, vedova Pescatore, mia cugina. Romilda, mia nipote.

      Volle che, per rassettarmi dalla corsa, bevessi qualcosa.

      – Romilda, se non ti dispiace…

      Come se fosse a casa sua.

      Romilda si alzò, guardando la madre, per consigliarsi con gli occhi di lei, e poco dopo, non ostanti le mie proteste, tornò con un piccolo vassojo su cui era un bicchiere e una bottiglia di vermouth. Subito, a quella vista, la madre si alzò indispettita, dicendo alla figlia:

      – Ma no! ma no! Da’ qua!

      Le tolse il vassojo dalle mani e uscì per rientrare poco dopo con un altro vassojo di lacca, nuovo fiammante, che reggeva una magnifica rosoliera: un elefante inargentato, con una botte di vetro sul groppone, e tanti bicchierini appesi tutt’intorno, che tintinnivano.

      Avrei preferito il vermouth. Bevvi il rosolio. Ne bevvero anche il Malagna e la madre. Romilda, no.

      Mi trattenni poco, quella prima volta, per avere una scusa a tornare: dissi che mi premeva di rassicurar la mamma intorno a quella cambiale, e che sarei venuto di lì a qualche giorno a goder con più agio della compagnia delle signore.

      Non mi parve, dall’aria con cui mi salutò, che Marianna Dondi, vedova Pescatore, accogliesse con molto piacere l’annunzio d’una mia seconda visita: mi porse appena la mano: gelida mano, secca, nodosa, gialliccia; e abbassò gli occhi e strinse le labbra. Mi compensò la figlia con un simpatico sorriso che prometteva cordiale accoglienza, e con uno sguardo, dolce e mesto a un tempo, di quegli occhi che mi fecero fin dal primo vederla una così forte impressione: occhi d’uno strano color verde, cupi, intensi, ombreggiati da lunghissime ciglia; occhi notturni, tra due bande di capelli neri come l’ebano, ondulati, che le scendevano su la fronte e su le tempie, quasi a far meglio risaltare la viva bianchezza de la pelle.

      La casa era modesta; ma già tra i vecchi mobili si notavano parecchi nuovi venuti, pretensiosi e goffi nell’ostentazione della loro novità troppo appariscente: due grandi lumi di majolica, per esempio, ancora intatti, dai globi di vetro smerigliato, di strana foggia, su un’umilissima mensola dal piano di marmo ingiallito, che reggeva uno specchio tetro in una cornice tonda, qua e là scrostata, la quale pareva si aprisse nella stanza come uno sbadiglio d’affamato. C’era poi, davanti al divanuccio sgangherato, un tavolinetto con le quattro zampe dorate e il piano di porcellana dipinto di vivacissimi colori; poi uno stipetto a muro, di lacca giapponese, ecc.,

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