Quattro Destini. Powell Michael

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Quattro Destini - Powell Michael

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che vogliamo fare ora è di andare avanti in modo che questa guerra che abbiamo combattuto sia l'ultima, OK?"

      "Sì, sì, certo". Ernest si sentì a disagio per quello che aveva detto Smith. “Lei dove era?”

      “La Marna, Ypres, la Somme; maledettamente fortunato, lo posso dire. Devo avere qualcuno che mi protegge, sono stato ferito un paio di volte, non troppo seriamente, grazie a Dio, e alla fine mi hanno lasciato tornare a casa quando si sono resi conto che non sarei stato di molto aiuto – difficile premere un grilletto, capisce.”

      Alzò la sua mano destra e Ernest si rese conto che dentro al suo guanto elegante c'era solo un pugno di legno.

      "Ho capito che lei parla tedesco. Fluentemente?" disse Smith.

      "Piuttosto bene, sì."

      "Come mai?"

      "Beh, ho avuto molti contatti con i tedeschi prima della guerra. Vivevamo a Deal, e andavo in barca, quindi li incontravo alle regate. Ho studiato un po' di tedesco a scuola così ho potuto rinfrescarlo quando ci siamo trovati tutti assieme."

      "Veramente? É stato a Cowes?"

      "E in altri posto, ma, sì, ero lì quando il ‘Meteor’ ci ha battuti di nuovo."

      "Lo yacht del Kaiser Bill? Ho sentito che era decisamente buono."

      Iniziarono a parlare di yacht – un argomento che si rivelò di reciproco interesse – e proseguirono fino a Parigi. L'auto li portò a uno dei grandi riccamente ornati di Quai D’Orsay, dove c'erano alcuni degli uffici della Commissione per la Pace. Smith lo guidò in una grande stanza piena di dattilografe e impiegati e poi in un piccolo ufficio.

      “Questo è il suo ufficio. Mi dispiace, è piuttosto piccolo – siamo in molti a lavorare qui.”

      La scrivania era piena di fogli e cartelline e Smith le indicò con aria di scusa. “Il suo lavoro, temo – letture arretrate” disse. “Le abbiamo destinato una segretaria – la farò venire e si presenterà da sola. Le mostrerà dove sono le cose. Forse potremo cenare assieme una di queste sere, una volta che si sarà sistemato.”

      Pochi minuti dopo che Smith se ne fu andato, una ragazza dall'aspetto piuttosto stressato entrò e si presentò come la sua segretaria, Jane, e gli mostrò dove erano tutte le cose. “Le hanno procurato alcune stanze in un appartamento in ‘Boule Miche’. Le darò una mappa – è proprio qui vicino.”

      Ernest iniziò a lavorare alla pila di documenti. Il loro contenuto piuttosto arido e noioso riguardava le discussioni tra gli Alleati e i rappresentanti tedeschi e alcune note sulle posizioni di negoziazione delle parti. Era chiaro che i francesi non avevano alcuna volontà di essere flessibili, che gli inglesi e gli americani erano più preparati a un compromesso e che i tedeschi, alcuni di loro almeno, non volevano ammettere che la responsabilità della guerra spettava interamente a loro o che in realtà l'avevano persa.

      Esausto alla fine della prima giornata, Ernest lasciò l'edificio dopo essersi assicurato di avere un pass per tornare il mattino successivo. Jane gli aveva data una mappa per mostrargli la strada per arrivare al suo appartamento e lui la seguì, camminando lungo la strada vicino alla Senna verso la Isle de la Cité e girando poi a destra quando arrivò al Pont Saint Michel, lungo Boulevard Saint Michel.

      L'appartamento era in un edificio alto, proprio vicino alla Sorbona. Era in un quartiere carino anche nel periodo successivo alla tremenda guerra che aveva quasi distrutto la città. La via, costeggiata da tigli, era immacolata e la sua strada acciottolata ospitava studenti che andavano e venivano dalle lezioni e c’erano bar aperti giorno e notte. La musica – soprattutto jazz, una nuova moda importata dagli Stati Uniti – usciva nelle strade mentre passava. La porta di ingresso dava su un cortile dove la tipica portinaia francese sedeva alla sua finestra guardando con sospetto chiunque passasse. Ernest andò verso la sua porta. “Il mio nome è Smith” disse, in francese, “Credo che qui ci sia un appartamento riservato per me”.

      La portinaia bofonchiò un sì e gli porse un portachiavi con una chiave grande e una piccola. “Quella grande è per la porta esterna, che di notte è chiusa. La più piccola è per il suo appartamento, terzo piano, numero due. Non dia le sue chiavi a nessuno – i visitatori non sono i benvenuti a meno che non siano accompagnati dai miei inquilini.” Lo guardò severamente, “non voglio nessuno di notte. Se vuole fare una festa, la faccia da qualche altra parte.” Detto questo, tornò nella sua stanza e chiuse la porta prima che Ernest potesse rispondere.

      Ernest fu molto occupato al Quai d’Orsay. Prese l’abitudine di fermarsi in uno dei bar studenteschi tornando verso casa dopo il lavoro per vivere l'eccitante atmosfera del dopo guerra. Nel frattempo, Smith stava diventando un buon amico e gli fece vedere la città nei loro giorni liberi. Quando la primavera lasciò posto all'estate, camminarono lungo le rive del fiume, scrutando le bancarelle dei libri in svendita. Si sedevano nei caffè lungo il marciapiede e confrontavano le loro esperienze di guerra. Smith era rimasto mutilato durante la seconda battaglia della Somme quando un proiettile di mitragliatrice gli aveva fatto a pezzi il polso. La ferita si era infettata e alla fine i chirurghi avevano dovuto amputargli la mano. “Brutto inconveniente – ho dovuto imparare a scrivere con la sinistra, se capisci cosa intendo. Comunque, poteva andare peggio – almeno ho avuto una scusa quando i miei di sono lamentati che non davo notizie.”

      Il lavoro di Ernest consisteva soprattutto nel tradurre testi tedeschi per la Commissione. Mentre lavorava divenne sempre più convinto che, come aveva detto Smith, stessero facendo un grosso errore nel punire i tedeschi così duramente. Fino a quando fosse stato raggiunto effettivamente un accordo, i paesi erano ancora tecnicamente in guerra, ma sotto un Armistizio. Questo significava che, se i tedeschi non avessero accettato i termini della resa, la guerra poteva riprendere, ma con i tedeschi in una situazione indifendibile. Questo rendeva molto nervosi Ernest e i suoi colleghi. “Non possiamo veramente andare di nuovo in guerra, vero?” chiese a Smith.

      “No, è solo un bluff. I francesi stanno giocando al gatto col topo con i tedeschi, per avere quanto vogliono.”

      “Giocando? Stai scherzando!”

      “No, purtroppo no. I francesi – e noi e, in misura minore, gli americani – vogliono la loro vendetta. Ma non preoccuparti, non ci sarà un'altra guerra. Ora hanno concordato con le nostre condizioni.”

      “Sì, ma sembra che questo li manderà in una completa bancarotta. Conosco i tedeschi molto bene e temo che se andremo avanti con tutti questi risarcimenti di guerra, creeremo solamente un altro mostro.”

      “Spero che tu abbia torto, Ernest. Questa non era la ‘guerra per terminare tutte le guerre’?”

      Ernest gli lanciò un'occhiata torva. “Spero sia veramente così. Vedremo.”

      La sua prima assistente, Jane, riuscì a farsi rimandare in Inghilterra e fu sostituita da una ex Wren piuttosto carina di nome Margaret. Era stata nelle Wren durante la guerra ed era rimasta a libro paga del governo dopo che il loro corpo era stato dismesso. Era stata assegnata alla Commissione per l'Armistizio perché parlava francese.

      Smith gliela presentò e lui ne fu immediatamente impressionato. Aveva un'aria intelligente e comprensiva al contrario di Jane, che aveva passato la maggior parte del tempo a lamentarsi di essere intrappolata in città. Interrogò il suo amico su di lei. “É un bel tipo – in realtà non il mio genere, ma piuttosto carina. Ma dico, non ti starai mica innamorando?”

      “Certo che no!” disse Ernest imbarazzato. “Ma in realtà non so nulla di lei.”

      “Oh, è tutto molto semplice. Suo padre è un parroco da qualche parte sulla

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