Il Volto della Morte. Блейк Пирс

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Il Volto della Morte - Блейк Пирс

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a parte convenirne.

      Il silenzio si appesantì. Zoe calcolava i secondi nella sua mente, rendendosi conto che era ormai trascorso il tempo di una normale pausa nella conversazione.

      Shelley si schiarì la voce. “Con i partner che ho avuto durante l’addestramento, cercavamo di comunicare durante il caso,” disse. “Lavorare per risolverlo insieme. Non da soli.”

      Zoe annuì, mantenendo lo sguardo fisso sulla strada. “Capisco,” rispose, anche se provava un senso crescente di panico. Non capiva, non completamente. In un certo senso si rendeva conto di come le persone si sentissero in sua presenza, perché glielo dicevano sempre. Ma non sapeva cosa avrebbe dovuto fare al riguardo. Ci stava già provando, ci provava con tutte le sue forze.

      “Parlami, la prossima volta,” disse Shelley, sprofondando nel suo sedile come se fosse tutto chiarito. “Dovremmo essere partner. Desidero davvero lavorare con te.”

      Questo non prometteva bene per il futuro. L’ultimo partner di Zoe si era impegnato per almeno un paio di settimane, prima di lamentarsi di quanto lei fosse silenziosa e distaccata.

      Questa volta aveva pensato che sarebbe andata meglio. Non le aveva forse comprato un caffè? E Shelley le aveva sorriso, prima. Avrebbe dovuto acquistare altre bevande per spostare l’equilibrio? Esisteva una determinata quantità alla quale puntare per rendere la loro relazione più piacevole?

      Zoe fissò la strada sfrecciare davanti al parabrezza, sotto un cielo che iniziava ad oscurarsi. Sentiva di dover aggiungere qualcos’altro, sebbene non immaginasse cosa. Era tutta colpa sua, ne era consapevole.

      Sembrava sempre così facile per gli altri. Parlavano, e parlavano, e parlavano, e diventavano amici da un giorno all’altro. Lo aveva visto accadere così tante volte, ma non sembrava ci fosse alcuna regola da seguire. Non dipendeva da un determinato periodo di tempo o da un certo numero di interazioni, o dalla quantità di cose che le persone dovevano avere in comune.

      Erano soltanto magicamente brave ad andare d’accordo con altre persone, come lo era Shelley. Oppure non lo erano. Come Zoe.

      Non capiva cosa stava sbagliando. Tutti le ripetevano continuamente di comportarsi in modo più caloroso e amichevole, ma cosa voleva dire, in pratica? Nessuno le aveva mai fornito una guida che spiegasse tutte le cose che avrebbe dovuto sapere. Zoe strinse ancora più forte il volante, cercando di non far capire a Shelley quanto si sentisse turbata. Era l’ultima cosa che voleva che la sua partner capisse.

      Zoe si rese conto di essere lei stessa il problema. Non si illudeva. Semplicemente, non sapeva come essere diversa, come facevano gli altri, e provava imbarazzo per il fatto di non averlo mai imparato. Ammetterlo sarebbe stato, in qualche modo, anche peggio.

      ***

      Il volo verso casa fu ancora più imbarazzante.

      Shelley sfogliava distrattamente le pagine di una rivista femminile che aveva acquistato in aeroporto, rivolgendo ad ogni pagina non più di uno sguardo superficiale prima di arrendersi e voltare pagina. Una volta letta tutta, dall’inizio alla fine, guardò verso Zoe; quindi, dopo aver pensato meglio all’eventualità di intraprendere una conversazione, aprì nuovamente la rivista, dedicando più tempo agli articoli.

      Zoe odiava leggere cose come quella. Le immagini, le parole, qualsiasi cosa venisse fuori dalle pagine. Dimensioni dei caratteri e volti, articoli contraddittori. Immagini che pretendevano di provare che una celebrità si era sottoposta a chirurgia estetica, mostrando soltanto i naturali cambiamenti che il viso subiva nel tempo e con l’età, facilmente rilevabili da chiunque avesse avuto conoscenze di base della biologia umana.

      Più volte, Zoe si era sforzata di pensare a qualcosa da dire alla sua nuova partner. Non poteva parlare della rivista. Cos’altro avrebbero potuto avere in comune? Le parole non le venivano.

      “Ottimo lavoro con il nostro primo caso,”disse infine, bisbigliando, senza avere quasi neanche il coraggio di dire questo.

      Shelley alzò lo sguardo con un’espressione sorpresa, occhi larghi e vaghi per un istante, prima di liberare un sorrisetto. “Oh, si,”disse. “Abbiamo fatto un buon lavoro.”

      “Speriamo che il prossimo vada altrettanto liscio.” Zoe sentì le sue interiora prosciugarsi. Perché chiacchierare le veniva così male? Stava impiegando ogni stilla di concentrazione per portare avanti il discorso.

      “Magari riusciremo a chiuderlo più velocemente, la prossima volta,” suggerì Shelley. “Sai, quando saremo in sintonia l’una con l’altra lavoremo molto più rapidamente.”

      Quest’ultima frase colpì Zoe come un pugno. Avrebbero potuto catturare il tizio più velocemente, portare l’elicottero sopra la sua esatta posizione sin dal loro arrivo, se soltanto Zoe avesse condiviso ciò che sapeva. Se non fosse stata tanto cauta da tenerlo nascosto.

      “Magari,” rispose in maniera evasiva. Cercò di rivolgere a Shelley un sorriso che potesse essere tranquillizzante, da parte di un agente esperto a una recluta. Shelley lo ricambiò con un po’ di esitazione e tornò alla sua rivista.

      Non parlarono più fino all’atterraggio.

      CAPITOLO DUE

      Zoe aprì la porta del suo appartamento con un sospiro di sollievo. Quello era il suo rifugio, il posto in cui poteva rilassarsi e smettere di cercare di essere la persona che chiunque altro avrebbe accettato.

      Non appena accese le luci, dalla cucina arrivò un leggero miagolio, e Zoe si diresse da quella parte dopo aver appoggiato le chiavi sul tavolino.

      “Ciao, Eulero,” disse, chinandosi per accarezzare dietro le orecchie uno dei suoi gatti. “Dov’è Pitagora?”

      Eulero, un soriano grigio, rispose miagolando e guardando verso la credenza dove Zoe teneva i sacchetti e le lattine di cibo per gatti.

      Zoe non aveva bisogno di un traduttore per capire. I gatti erano creature piuttosto semplici. Le uniche interazioni che desideravano davvero riguardavano il cibo e una grattatina di tanto in tanto.

      Prese una nuova lattina dalla credenza e l’aprì, versandone il contenuto in una ciotola. Il suo Burmese, Pitagora, fiutò subito l’odore e si precipitò da un altro punto della loro casa.

      Zoe lì guardò mangiare per un momento, domandandosi se desiderassero avere un altro essere umano che badasse a loro. Vivere soli voleva dire ricevere del cibo quando lei tornava a casa, indipendentemente da quanto tempo sarebbe tracorso. Indubbiamente, avrebbero preferito un programma più regolare; ma c’erano sempre i topi del quartiere da cacciare, nel caso fossero stati affamati. E notò che Pitagora, ultimamente, aveva messo su un paio di chili. Avrebbe dovuto metterlo a dieta.

      Non che Zoe fosse in procinto di sposarsi, sia per i gatti che per qualsiasi altro motivo. Non aveva mai neanche avuto una relazione davvero seria. Dopo l’educazione ricevuta, si era quasi del tutto rassegnata al fatto che fosse destinata a morire da sola.

      Sua madre era profondamente religiosa, praticamente intollerante. Zoe non era mai stata in grado di trovare il punto in cui la Bibbia dicesse che bisognava comunicare come tutti gli altri e pensare in termini di enigmi linguistici, piuttosto che attraverso formule matematiche, ma evidentemente sua madre aveva comunque letto qualcosa del genere. Era convinta che la figlia avesse qualcosa di sbagliato, qualcosa di immorale.

      Zoe

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