Il ritorno di Zero. Джек Марс

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Il ritorno di Zero - Джек Марс

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appena, cercando di non apparire nervosa. “Naturalmente. Ma devo incontrarmi con un amico all'Hilton per cena”.

      “In ogni caso”, rispose l'agente, “gli ordini del presidente erano di riportarla al suo hotel, quindi questo è quello che devo fare. Motivi di sicurezza”. Sospirò, come se avesse pietà di lei, anche se era abbastanza certa che l'avrebbe uccisa. “Sono sicuro che capirà”.

      “Oh”, disse all'improvviso. “E le mie cose? Il mio telefono e le chiavi?”

      “Le ho io”. Joe si diede una pacca sul taschino della giacca.

      Dopo un lungo momento di silenzio, Karina disse: “Posso averle...?”

      “Certo”, disse lui. “Appena arriviamo”.

      “Vorrei davvero averle ora”, insistette lei.

      L'agente sorrise di nuovo, pur tenendo gli occhi fissi sulla strada. “Saremo lì tra pochi minuti”, disse con calma, come se rispondesse a una bambina petulante. Karina dubitava che avesse i suoi oggetti nella giacca.

      Si sedette al suo posto, o almeno sembrò farlo, cercando di sembrare rilassata mentre il SUV si fermava a un semaforo rosso. L'agente dei servizi segreti cercò nella console centrale un paio di occhiali da sole neri e li indossò.

      La luce divenne verde.

      L'auto davanti a loro cominciò ad avanzare.

      L'agente tolse il piede dal freno, premette l’acceleratore.

      Con un rapido movimento, Karina Pavlo premette il rilascio della cintura di sicurezza con una mano ed aprì la portiera con l'altra. Saltò giù dal SUV in movimento, colpendo l'asfalto con i tacchi. Uno dei due si ruppe. Cadde in avanti, colpendo il marciapiede con i gomiti e rotolando ma si alzò subito in piedi. Si tolse entrambe le scarpe e cominciò a correre per la strada.

      “Che diavolo?” L'agente dei servizi segreti frenò di colpo e parcheggiò proprio in mezzo alla strada. Non si prese la briga di urlare, e di certo non la lasciò andare, e ciò non fece che confermare la sua idea.

      I conducenti suonarono il clacson e gridarono mentre l'agente balzava fuori dalla macchina, ma a quel punto era a più di mezzo isolato di distanza, praticamente a piedi nudi, con le calze strappate, ignorando il dolore alle piante dei piedi.

      Girò bruscamente l'angolo e corse verso la prima apertura che vide, un piccolo vicolo. Quindi svoltò a sinistra, correndo più veloce che poté, guardandosi ogni tanto alle spalle senza vedere l'agente.

      Mentre uscì nella strada successiva, vide un taxi giallo.

      L'autista quasi sputò il suo caffè quando lei si precipitò sul sedile posteriore e gridò: “Metta in moto! Per favore, metta in moto!”

      “Gesù Cristo, signora!” la rimproverò. “Mi ha spaventato a morte...”

      “Qualcuno mi sta inseguendo, per favore, metta in moto”, supplicò lei.

      Lui si accigliò. “Chi la sta inseguendo?” L'autista, irritante, si guardò intorno. “Non vedo nessuno...”

      “Per favore, metta in moto e basta!” strillò lei.

      “Ok, ok!” Il tassista si spostò e il taxi virò nel traffico facendo suonare altri clacson che non avrebbero fatto altro che indicare all'agente la sua posizione.

      Mentre si girava sul sedile per guardare fuori dal parabrezza posteriore vide l'agente che girava l'angolo correndo. Rallentò e i suoi occhi incontrarono quelli di lei. Una delle sue mani si infilò per un attimo nella sua giacca, ma sembrò pensarci due volte prima di estrarre una pistola in pieno giorno, poi si portò una mano all'orecchio per chiamare qualcuno.

      “Giri a sinistra”. Karina ordinò al tassista di svoltare, passare qualche altro isolato, svoltare a destra e poi saltò di nuovo fuori mentre lui le urlava di pagare. Corse giù per l’isolato e lo fece altre tre volte, saltando sui taxi e uscendo fino a quando non ebbe attraversato Washington con un percorso così tortuoso da essere certa che quell'agente dei servizi segreti non sarebbe riuscito a trovarla.

      Trattenne il respiro e si lisciò i capelli mentre rallentava a passo svelto, tenendo la testa bassa e cercando di non sembrare terrorizzata. Lo scenario più probabile era che l'agente avesse ottenuto il numero di targa del taxi e che lo sfortunato tassista (sebbene un po' lento) venisse fermato, controllato e interrogato per assicurarsi che non facesse parte di un piano di fuga.

      Karina si infilò in una libreria, sperando che nessuno si accorgesse che era senza scarpe. Il negozio era tranquillo e gli scaffali erano alti. Si diresse rapidamente verso la parte posteriore, si diresse in un bagno, si spruzzò dell'acqua sul viso e si sforzò di trattenere le lacrime.

      La sua faccia era ancora pallida per lo shock. Con che velocità la situazione era precipitata.

      “Bozhe Moy”, sospirò pesantemente. Mio Dio. Mentre l'adrenalina svaniva, la piena gravità della sua situazione la colpì. Aveva sentito cose che non avrebbero mai dovuto lasciare nel seminterrato della Casa Bianca. Non aveva alcun documento. Nessun telefono. Nemmeno un soldo. Cavolo, non aveva nemmeno le scarpe. Non poteva tornare al suo hotel. Anche mostrare il suo viso in qualsiasi spazio pubblico dove avrebbe potuto esserci una telecamera era rischioso.

      Non avrebbero smesso di cercarla, dato ciò che sapeva.

      Ma aveva le perle dei suoi orecchini. Karina si toccò distrattamente il lobo sinistro, accarezzando quella pietra liscia. Conosceva le parole pronunciate in quell'incontro, ed erano ben più di un lieve ricordo. Aveva la prova del fatto che il presidente americano, un presunto liberale democratico che si era guadagnato l'ammirazione del paese, non era altro che un burattino nelle mani dei russi.

      Lì nella toilette femminile di una libreria del centro, Karina si guardò allo specchio mentre mormorava disperatamente: “Ho bisogno di aiuto”.

      CAPITOLO UNO

      Zero si sedette sul bordo del letto matrimoniale e si strinse nervosamente le mani in grembo. Ci aveva già pensato molte volte, l'aveva provato mille volte nella sua mente. Eppure, era ancora lì.

      Le sue due figlie adolescenti erano sedute sul letto vicino al suo. Erano in una stanza del Plaza, un hotel di lusso appena fuori Washington. Avevano deciso di dormire lì invece di tornare a casa a seguito dell'attentato alla vita del presidente Pierson.

      “Vi devo dire una cosa”.

      Maya aveva quasi diciassette anni. Aveva i capelli castani e i lineamenti del viso di suo padre, lo spirito acuto e il sarcasmo pungente di sua madre. Lo guardò passivamente, con un'ombra di preoccupazione.

      “Non è facile da dire. Ma avete il diritto di saperlo”.

      Sara aveva quattordici anni e viveva i conflitti dell'età in cui ci si avvicina alla pubertà. Aveva ereditato i capelli biondi di Kate e il suo viso espressivo. Assomigliava sempre di più a sua madre ogni giorno che passava, e al momento sembrava nervosa.

      “Riguarda vostra madre”.

      Entrambe ne avevano passate molte, erano state rapite e avevano assistito a omicidi e più volte era stata loro puntata la canna di una pistola in fronte.

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