Il ritorno di Zero. Джек Марс

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Il ritorno di Zero - Джек Марс

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di tornare a lavorare al seminterrato incompiuto. “E tu?”

      Lei alzò le spalle. “Tutto abbastanza bene”. Tendeva a non parlare troppo del lavoro con lui, non solo per ragioni di sicurezza, ma anche per la paura inespressa (almeno così Zero supponeva) di poter risvegliare in lui ricordi o di invogliarlo a rimettersi in gioco. Sembrava che a lei piacesse la sua situazione. Sebbene quelli fossero tutt'altro che sospetti.

      “Kent”, disse, “non dimenticare che abbiamo programmi per la cena”.

      Lui sorrise. “Certamente”. Non si era dimenticato dell'ospite di quella sera. Ma stava cercando con tutte le sue forze di non pensarci.

      Kent.

      Era l'unica a chiamarlo ancora in quel modo.

      Agente Kent Steele era il suo pseudonimo nella CIA, ma ora non era altro che un ricordo. Zero era il segnale per chiamarlo, era stato inventato per gioco da Alan Reidigger, che lo chiamava ancora Zero. E da quando aveva recuperato i suoi ricordi, quello era il nome che sentiva più suo. Ma ormai non era più né Kent né Zero. Non era più nemmeno il professor Lawson. Al diavolo, si sentiva a malapena sé stesso, il suo vero io, Reid Lawson, padre di due figlie e professore di storia e agente segreto della CIA. Anche se erano passati diciotto mesi, ricordava ancora amaramente gli oscuri cospiratori che trascinarono il suo nome nel fango, rilasciando la sua immagine ai media, chiamandolo terrorista e tentando di incolparlo del tentato assassinio. Ovviamente, era stato completamente scagionato da quelle accuse, e non aveva idea se qualcuno lo ricordasse. Ma lui sì. E ora quel nome gli sembrava quello di uno sconosciuto. Evitava di riferirsi a sé stesso o di farsi riconoscere come Reid Lawson ogni volta che era possibile, la casa, le bollette e persino le macchine erano tutte a nome di Maria. Non arrivava alcuna lettera con il suo nome sopra. Nessuno aveva mai chiamato per chiedere di Reid.

      O di Kent.

      O di Zero.

      O di papà.

      Quindi chi diavolo sono io?

      Non lo sapeva. Ma sapeva che avrebbe dovuto scoprirlo da solo, perché la vita che stava conducendo non era una vita degna di essere vissuta.

      CAPITOLO DUE

      Zero era contento di non doverne parlare. Ma Alan sapeva che non era il caso di chiedere delle ragazze.

      Reidigger rimase lì per circa quarantacinque minuti prima di alzarsi dalla sedia a sdraio, allungarsi e nel suo solito modo, annunciare che avrebbe dovuto “tornare sulla sua vecchia pista”. Zero gli diede un breve abbraccio e fece un cenno con la mano mentre usciva con il suo camioncino dal vialetto, ringraziandolo silenziosamente per non aver chiesto delle sue figlie, perché la verità era che se Alan avesse chiesto come stavano, Zero non avrebbe potuto rispondere.

      Trovò Maria in cucina, con indosso un grembiule sopra i suoi abiti da lavoro mentre tagliava una cipolla. “È stata piacevole la visita?”

      “Sì”.

      Silenzio. Solo il suono ritmato del coltello contro il tagliere.

      “Sei pronto per stasera?” chiese dopo un lungo momento.

      Lui annuì. “Sì. Certamente”. Ma non lo era. “Che cosa stai facendo?”

      “Un pasticcio”. Versò il contenuto del tagliere in una grande pentola sul fornello che conteneva già kielbasa, cavolo e altre verdure. “È una ricetta polacca”.

      Zero si accigliò. “Un pasticcio. Da quando sai cucinare il pasticcio?”

      “Ho imparato da mia nonna”. Fece lei con un sorrisetto. “Ci sono ancora molte cose che non sai di me, signor Steele”.

      “Evidentemente”. Esitò, chiedendosi come affrontare meglio l'argomento, e poi decise che la cosa migliore era farlo in modo diretto. "Uhm... ehi... Stasera, pensi che potresti provare a non chiamarmi Kent?”

      Maria si fermò tenendo il coltello sospeso su un fungo secco. Si accigliò, ma annuì. “Ok. Come vuoi che ti chiami? Reid?”

      “Io...” Stava per rispondere di sì, ma poi si rese conto che nemmeno quell'opzione gli piaceva. “Non lo so”. Forse, pensò, avrebbe dovuto evitare di chiamarlo.

      “Uhm”. Dalla sua espressione era evidente che era preoccupata, voleva a tutti i costi sapere cosa succedesse nella sua testa, ma non era il momento giusto per indagare ulteriormente. “Che ne dici se ti chiamo 'biscottino'?”

      “Molto divertente”. Ma non poté fare a meno di sorridere.

      “O 'pasticcino'?”

      “Vado a cambiarmi”. Uscì dalla cucina mentre Maria lo chiamava, ridendo tra sé e sé.

      “Aspetta, ci sono. Ti chiamerò tesoro”.

      “Ti sto ignorando”, rispose lui. Apprezzò quello che stava cercando di fare, ovvero tentare di sdrammatizzare la situazione scherzando. Ma quando raggiunse la cima della breve scala che conduceva al soppalco, si sentì nuovamente in presa all'ansia. Era stato contento della visita di Alan perché gli aveva permesso di non pensarci per un po'. Era stato contento che Alan non avesse chiesto delle ragazze perché significava che non avrebbe dovuto affrontare nuovamente i suoi ricordi. Ma non c'era modo di evitarlo ora.

      Maya veniva a cena da loro.

      Zero ispezionò i suoi jeans, si assicurò che fossero privi di buchi o macchie di caffè e si tolse la maglietta per indossare una camicia a strisce.

      Sei un bugiardo.

      Si passò un pettine tra i capelli. Stavano diventando troppo lunghi. Stavano diventando grigi, specialmente sulle tempie.

      La mamma è morta per colpa tua.

      Si girò di lato e si ispezionò allo specchio, spostando all’indietro le spalle e cercando di tirare indietro la pancia.

      Ti odio.

      L'ultimo scambio significativo che aveva avuto con la figlia maggiore era al vetriolo. Nella stanza d'albergo al Plaza quando aveva detto loro la verità sulla madre, Maya si era alzata dal letto. Aveva iniziato piano, ma la sua voce era diventata sempre più acuta. Il suo viso era diventato sempre più rosso mentre imprecava contro di lui. Gli aveva rivolto tutti gli insulti che meritava. Dicendogli esattamente cosa pensava di lui, della sua vita e delle sue bugie.

      Dopo di che, nulla era più stato lo stesso. La loro relazione era cambiata all'istante, drammaticamente, ma quella non era la parte più dolorosa. Almeno era ancora lì fisicamente, al momento. Le conseguenze a lungo termine furono ancora peggiori. Dopo la confessione in hotel, dopo che furono tornati a casa nella loro casa di Alessandria, Maya era tornata a scuola. Stava finendo il liceo; aveva perso due mesi di lavoro, ma si era messa al lavoro per recuperare con una determinazione che Zero non aveva mai visto prima in lei.

      Poi venne l'estate, e lei continuava a studiare nella sua stanza. Non ci volle molto per capire cosa stesse succedendo. Maya era estremamente intelligente, troppo intelligente, diceva spesso. Ma in questo caso, era troppo intelligente per il suo bene.

      Maya aveva studiato e lavorato sodo e, grazie a una clausola poco conosciuta nel regolamento

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