Il Volto della Paura. Блейк Пирс
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Sapeva quando finiva il suo turno, e la strada che prendeva per tornare a casa.
Sapeva che doveva morire.
Riusciva a stento a sopportare la sua vista, ma sapeva di dover guardare. Di dover osservare. Picchiettò distrattamente sullo schermo del suo cellulare, come se fosse completamente preso dai contenuti del dispositivo, guardandola attraverso gli occhiali da sole che celavano i suoi occhi. Studiava la routine della ragazza ormai da diversi giorni, e sapeva che sarebbe passata da qui. Questa panchina, collocata in posizione perfetta per tenerla sotto controllo.
Il mondo sarebbe stato un posto più sicuro dopo la sua morte. Quello era decisamente chiaro per lui.
La vide passare, esattamente in orario, e uscire dal suo campo visivo. Non aveva importanza. Sapeva esattamente dove stava andando. Lentamente, come se avesse tutto il tempo del mondo, si alzò dalla panchina e iniziò a camminare lungo il marciapiede nella stessa direzione in cui si era incamminata lei.
Il sabato faceva doppio turno. Si stava pagando gli studi, e aveva bisogno di soldi. Aveva senso, perché non c’erano lezioni da frequentare di domenica mattina. I suoi colleghi erano tutti felicissimi di non dover lavorare di sabato, o quantomeno di non dover lavorare così tanto come avrebbero dovuto fare se lei non avesse svolto il doppio turno. Era una soluzione che andava bene a tutti.
Soprattutto andava bene a lui, perché una volta uscita dal lavoro per tornare a casa, sarebbe stato buio. Lui sarebbe stato nascosto. Non l’avrebbe mai visto avvicinarsi.
La seguì da lontano fino a quando non raggiunse il negozio, dando un’occhiata all’interno fino a quando non la vide uscire dalla sala del personale. Bene. Andò via. Non aveva senso restare. Lei era lì dove lui voleva che fosse, e quello significava che stava andando tutto secondo i piani.
Ribolliva dalla rabbia quando pensava a lei, al fatto che fosse ancora viva. Non ne aveva il diritto. Non avrebbe dovuto azzardarsi a mettere tutti in pericolo come aveva fatto. Come faceva a non capire, a non sapere?
Stava studiando per diventare un’insegnante. Quella era la cosa più ridicola di tutte: immaginare che a una come lei venisse concesso di badare a dei bambini. Che le venisse affidata la loro educazione, permettendole di prendersene cura. Una posizione di fiducia del genere a una persona come lei.
Il mondo sarebbe stato decisamente migliore senza di lei.
Per il momento, non c’era niente da fare a parte attendere. Aveva fatto le sue ricerche, e gli piaceva trascorrere il tempo libero a guardare le persone, a scovare il male che avrebbe messo in pericolo tutti se lui non avesse fatto niente. Aveva un sacco di faccende con cui occupare la sua giornata.
E quella sera, lui sarebbe stato lì per lei. In osservazione. In attesa. Pronto a liberare il mondo dai suoi peccati.
CAPITOLO NOVE
Zoe attese l’elaborazione del comando di ricerca, appoggiandosi allo schienale della sedia e incrociando le braccia al petto.
“Ancora niente?” domandò Shelley.
“Dai un minuto al sistema,” rispose Zoe. Era ancora un po’ di cattivo umore per prima, e si sentiva talmente a suo agio attorno a Shelley da non preoccuparsi di nasconderlo. “Non è un film. Qui serve davvero del tempo per elaborare le informazioni.”
“Ok, ok,” disse Shelley. “Sono soltanto emozionata. Insomma, potrebbe trattarsi di un grosso indizio.”
Zoe la guardò con aria cupa, chiedendosi come fosse possibile per una persona passare da un’emozione all’altra così intensamente. Com’era possibile che Shelley potesse essere così sconvolta, quasi sul punto di piangere, ogni volta che vedeva un cadavere e interrogava un familiare, ed emozionarsi come una scolaretta alla prospettiva di risolvere il caso?
Lo schermo che aveva di fronte lampeggiò, attirando la sua attenzione verso una lista di risultati. Sembrava che la loro seconda vittima, Callie Everard, si fosse data da fare per diversi anni. C’erano molti verbali che la riguardavano all’interno del sistema del commissariato di polizia locale, tra cui un paio di arresti per possesso di sostanze illegali.
“Ci siamo,” disse Zoe. “È stata interrogata un paio di volte in relazione alla morte di un certo Clay Jackson. Deve essere lui.”
“Clay Jackson? Perfetto,” ripeté Shelley, digitando il nome dell’uomo nella barra di ricerca sul computer che era stato portato nella loro temporanea stanza delle indagini.
A volte era estenuante lavorare in queste condizioni. Spostandosi sempre di città in città, riuscendo a malapena ad ambientarsi per poi essere spedite da qualche altra parte. Tornare a casa soltanto per le udienze, che erano sempre indesiderate e inevitabilmente inopportune.
Zoe cliccò sul nome dell’uomo e studiò i rapporti delle indagini. Stava ancora aspettando che la pagina si caricasse quando Shelley prese la parola. Non c’era da sorprendersi che i motori di ricerca su internet fossero più veloci rispetto al sistema della polizia di stato.
“Ho trovato qualcosa. L’account social commemorativo di Clay Jackson. Ci sono diversi post, ogni anno, in occasione dell’anniversario della sua morte e del compleanno, ma ci sono anche foto. Aveva un sacco di tatuaggi.”
“Un sacco?”
“Più di Callie. E credo di poterne riconoscere uno o due che hanno un particolare significato di strada. La teoria della gang potrebbe reggere.”
Zoe sbuffò, scuotendo la testa. Si alzò per dare un’occhiata, guardando le foto di Clay Jackson. Era alto un metro e ottantacinque e pesava sessantatre chili nella sua ultima immagine. Strafatto, a stento mangiava. Aveva l’aria di chi un tempo era stato in forma e in salute, muscoloso, prima che questa dipendenza prendesse il controllo della sua vita. Nelle foto diventava sempre più magro. Non ha mai portato a termine quel percorso, è stato ucciso prima.
“Perché i criminali fanno questo?” domandò.
“Fare cosa?”
“Si marchiano per noi. Ce la rendono facile con i loro tatuaggi da gang.”
“Non credo sia questo il senso di tatuarsi,” disse Shelley, sorridendo ironicamente mentre continuava a darle le spalle. “Si tratta di conformismo sociale. Mostrare l’appartenenza ad un determinato gruppo. A volte, il sentimento di lealtà e cameratismo che si ottiene da quel senso di appartenenza oltrepassa la necessità di proteggersi o la logica di evitare l’arresto.”
“Non farei mai un tatuaggio da gang. Anche se fosse un requisito per entrare a farne parte. Anzi, soprattutto se fosse così. Che regola idiota.”
Shelley girò leggermente la sua sedia, rivolgendo a Zoe uno sguardo divertito. “Comunque non penso proprio che ti uniresti a una gang. Richiederebbe troppi convenevoli. Non credo ti piacerebbe.”
“Non farei un tatuaggio per nessun motivo al mondo,” rispose Zoe, sottolineando l’altra parte della questione. “E non capisco perché qualcuno voglia farlo. Cosa può esserci di tanto importante da spingere una persona a