Fuggi, Angelo Mio. Virginie T.

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Fuggi, Angelo Mio - Virginie T.

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e di fare dei progetti per il futuro, perché non posso vagare senza una meta per sempre.

      Mi rendo conto di non essere mai andata a casa sua, neppure una volta. La sua casa è piccola, lontana dalla strada e da qualsiasi vicino. La stradina che conduce al suo portico è sassosa ed io sobbalzo sul sedile. Tutto ciò mi fa contorcere pericolosamente lo stomaco, che si rivolta contro questi movimenti caotici.

      «Mi dispiace. Non ho ancora avuto il tempo di sistemare l'esterno della casa.»

      Gli rivolgo un debole sorriso, tenendo la bocca ermeticamente chiusa per non vomitare sulla leva del cambio. Per fortuna, non dura più di un minuto, poi parcheggiamo davanti ad una casa in mattoni a vista assolutamente incantevole.

      «E' molto carina.»

      Mi sorride ed una fossetta compare sulla sua guancia sinistra.

      «Grazie. L'ho ereditata da mia nonna qualche anno fa e da allora sto cercando di rimetterla in sesto.»

      Fa il giro della macchina per aprirmi la portiera, come un vero gentleman.

      «Vieni. Ti preparo un buon tè e potremo parlare.»

      Mi afferra la mano ed io mi ritraggo istintivamente. Da molto tempo non tengo la mano di un uomo che non sia Brandon e questa mano estranea, più grande e forte, mi lascia una sensazione spiacevole. Il padrone di casa non si accorge del mio imbarazzo e mi fa entrare da una porta rossa tutta di legno, che scatta al mio passaggio. Ho appena il tempo di ammirare il suo ingresso, decorato con uno specchio, poi mi conduce in una cucina all'ultima moda, perfettamente attrezzata, con un piano cottura immenso ed una grande isola circondata da sgabelli alti e comodi.

      «Siediti lì. Ti preparo qualcosa da bere.»

      Ne approfitto per voltarmi ed osservare la sua casa con uno sguardo curioso. Nel complesso è moderna, ha un aspetto conviviale, eppure sento una specie di malessere. Non ci sono foto, né soprammobili, nessuna traccia di vita. E' tutto stupendo, ma asettico, come una casa da mostrare, ma senza un'anima. E' difficile immaginare che un uomo single abiti in un posto del genere. Dov'è il disordine? La biancheria sporca sparsa dappertutto? Insomma, dei segni di vita!

      «Due zollette, vero?»

      Riporto l'attenzione sul mio amico.

      «Sì, grazie.»

      Posa la tazza davanti a me ed io approfitto del calore sulle mie mani per riprendermi. Potermi riposare mi fa molto bene, tuttavia devo pensare al futuro.

      «Sei pronta a raccontarmi cosa è successo dopo che abbiamo chiuso la telefonata?»

      E' vero che quando ci siamo parlati stavo piangendo, chiusa nella mia macchina. La mia ex-macchina. Tutto è diventato ex dopo quella telefonata.

      «Ti avevo detto di chiamarmi, se ne avessi avuto bisogno.»

      «Non ti volevo disturbare.»

      Infatti è vero, almeno in parte. Avevo già l'impressione di essere un fardello per il mio ex-fidanzato e non volevo diventarlo anche per Léon, l'amico che mi ha sostenuta in questi ultimi mesi, contro tutto e tutti.

      «Non mi disturbi mai, Mal, te l'ho già detto.»

      Gioca con le mie dita sul tavolo, mentre un brivido risale lungo la mia colonna vertebrale. Tiro indietro la mano e mi stringo le braccia intorno alle spalle per scaldarmi, anche se dubito che il freddo sia il responsabile della mia pelle d'oca.

      «Ho litigato con Brandon.»

      Il ricordo delle ultime parole che l'ex-amore della mia vita ha pronunciato mi fa salire in gola un groppo grande come una palla da calcio.

      «Si sistemerà tutto, Mal. Come al solito.»

      La palla diventa sempre più grande nella mia trachea: ho l'impressione di soffocare.

      «No, non si sistemerà affatto. Mi ha chiesto di andarmene. Vuole che facciamo una pausa di riflessione.»

      Scoppio in una risata isterica ed anche un po' spaventosa, persino alle mie orecchie.

      «Tutti sanno cosa significhi fare una pausa. Ha rotto con me, mi ha lasciata. Definitivamente.»

      Léon stringe le labbra di fronte a me, tanto che diventano invisibili in mezzo alla sua folta barba nera.

      «Brandon è un idiota. Sarà lui a rimpiangerlo.»

      La mia risata si trasforma a poco a poco in singhiozzi disperati, mentre un torrente di lacrime mi invade il viso, prima ancora che io me ne renda conto. Sembra proprio che la fonte non si sia prosciugata.

      «Ha spazzato via un rapporto di due anni come se niente fosse, come se questo tempo  insieme non avesse importanza. L'unica ad avere dei rimpianti, sono io. Avrei dovuto sforzarmi di più, dare ascolto alle sue paure. Voleva solo che io trovassi un lavoro e…»

      «Shhh. Basta, Mal. Respira. Stai trattenendo il fiato.»

      In effetti, durante tutta questa tirata non ho mai fatto un respiro. I rimorsi mi tolgono il fiato. Léon mi accarezza la schiena dal basso verso l'alto, imponendomi di inspirare ed espirare al suo ritmo. Il calore del suo palmo trapassa la stoffa dei miei vestiti ed ancora una volta, trovo che mi stia troppo vicino.

      «Devo andare.»

      «Non dire sciocchezze, Mallory! Non puoi andare da nessuna parte, in questo stato. Non hai nemmeno una macchina. Hai almeno un posto dove andare?»

      Sprofondo ancora di più sullo sgabello, incurvando le spalle.

      «Dovrò ritornare dai miei genitori.»

      Nonostante le mie reticenze, non ho altre opzioni. Delle lacrime di vergogna mi colano dagli angoli degli occhi. Tra poco avrò 27 anni e dovrò tornare a vivere dai miei genitori come se fossi una bambina. Sono in collera con me stessa, perché non sono capace di prendermi le mie responsabilità.

      «Potresti restare qui per un po'.»

      Alzo di scatto la testa e fisso Léon, come se gli fosse spuntata una terza testa o un corno sulla fronte.

      «Sei adorabile, Léon, ma non è una buona idea.»

      Si raddrizza in tutta la sua altezza, dominandomi, mentre un principio di  paura si insinua dentro di me.

      «Non era proprio una proposta, Mal.»

      Mi alzo ed indietreggio in direzione della porta.

      «Inizi a farmi paura, Léon. Sarà meglio che io me ne vada.»

      Avanza verso di me come un predatore che insegue la propria preda. Ed è proprio così che mi sento: una preda bloccata contro una porta che rifiuta di aprirsi, nonostante i miei tentativi disperati di fare girare la maniglia.

      «Staremo bene insieme, Mal.»

      Le sue parole fanno fatica a penetrare attraverso la nebbia del mio panico. Scuoto la testa, ma ho l'impressione di averla immersa nel cotone. Ho delle vere difficoltà a riordinare le idee e quando apro la bocca, all'improvviso ho la sensazione che la mia lingua pesi una tonnellata. Inizio a scivolare fino a metà porta, mentre Léon si avvicina ancora. Non ha l'aria di preoccuparsi per la mia improvvisa debolezza, quindi un sospetto

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