L’alibi Perfetto. Блейк Пирс

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L’alibi Perfetto - Блейк Пирс Un thriller psychologique avec Jessie Hunt

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andando sorprendentemente d’accordo ultimamente. Ma per la maggior parte del tempo che passavano insieme, c’era sempre Ryan con loro. Era un’ottima compagnia, ma poteva anche darsi che stesse inavvertitamente trattenendo Hannah dall’addentrarsi in discorsi più pesanti. Magari un po’ di tempo insieme da sorelle l’avrebbe indotta ad aprirsi di più, sempre ammesso che ne sentisse il bisogno.

      “Ryan Hernandez,” disse Jessie, sentendosi improvvisamente e inaspettatamente allegra, considerate le condizioni della sua auto, “non sei né la più stupida né la meno sensibile persona che abbia mai incontrato.”

      “Grazie?”

      “Hai anche un culo adorabile.”

      Lo sentì tossire per qualcosa che gli era andato di traverso. Soddisfatta del proprio lavoro, Jessie riagganciò.

*

      Hannah fu chiaramente piacevolmente sorpresa quando Jessie si presentò a prenderla direttamente a scuola. Poi divenne estremamente entusiasta quando seppe che si sarebbero fermate a prendere un gelato prima di andare a casa.

      “Perché non lavori?” le chiese alla fine, con riluttanza, quando ebbero ordinato i loro coni nella gelateria dietro l’angolo, vicino al loro appartamento.

      “Non sono particolarmente occupata adesso,” disse Jessie. “E volevo passare del tempo con te. Sai, senza quello sdolcinato ragazzo attorno.”

      “Sdolcinato non è la prima parola che mi viene in mente quando penso al tuo ragazzo,” disse Hannah.

      “Attenta,” disse Jessie in tono di finto rimprovero. “Non dobbiamo condividere ogni sensazione nel momento in cui la proviamo.”

      Hannah sorrise, ovviamente divertita per essere riuscita a generare un certo imbarazzo.

      “Non sapevo che le figlie dei serial killer avessero il permesso di poter condividere sensazioni e sentimenti,” disse ironica.

      Jessie cercò di non lanciarsi famelica addosso all’opportunità che la sorella le stava offrendo.

      “Tecnicamente, non ci è permesso,” rispose beffardamente. “Secondo il manuale ufficiale, dovremmo essere freddi automi privi di emozioni, che si impegnano in sbrigativi tentativi di copiare il normale comportamento umano. Come te la cavi con queste regole?”

      “Piuttosto bene, devo dire,” rispose Hannah, stando al gioco. “Mi sembra che mi riesca piuttosto naturale. Se ci fosse una qualche possibilità di sbocco professionale, penso che sarei una valida candidata.”

      “Anche io,” confermò Jessie, dando una leccata al suo cono alla menta e cioccolato. “Probabilmente tu saresti la numero uno nel torneo. E non per vantarmi, ma penso che io sarei una validissima seconda.”

      “Stai scherzando?” chiese Hannah mentre mandava giù un bel boccone di sano Rocky Road. “Tu al massimo saresti un jolly.”

      “Perché?” chiese Jessie.

      “Tu esprimi affetto per gli altri. Hai delle vere amicizie. Hai una vera relazione con una persona a cui sembri voler bene. È quasi come se fossi un essere umano normale.”

      “Quasi?”

      “Beh, siamo onesti, Jessie,” disse Hannah. “Sei sempre lì che vedi ogni interazione come una possibilità di fare il profilo della persona. Ti butti nel tuo lavoro per evitare le comunicazioni dolorose nella tua vita personale. Ti muovi come un cerbiatto, con la paura che tutti quelli che incontri siano il cacciatore pronto a sparare. Quindi, non completamente normale.”

      “Wow,” disse Jessie, sia impressionata che un po’ turbata dalla capacità percettiva della sorella. “Magari dovresti essere tu la profiler. Non perdi un colpo.”

      “Oh sì,” aggiunse Hannah. “E cerchi anche di minimizzare le verità scomode con delle battute sarcastiche.”

      Jessie sorrise.

      “Touché,” disse. “Tutta questa consapevolezza del nostro comune involuto sviluppo emotivo significa forse che le sedute con la dottoressa Lemmon stanno funzionando?”

      Hannah ruotò gli occhi al cielo, lasciando intendere che a suo parere quel tentativo di reindirizzare la conversazione era particolarmente mal riuscito.

      “Significa che conosco i miei problemi, non che sia necessariamente capace di fare qualcosa per risolverli. Cioè, tu da quanto la vedi?”

      “Vediamo. Adesso ho trent’anni, quindi direi più o meno una decina d’anni,” disse Jessie.

      “E sei ancora un casino,” sottolineò Hannah. “Questo non mi rende particolarmente ottimista.”

      Jessie non poté fare a meno di ridere.

      “Avresti dovuto vedermi allora,” le disse. “Confronto alla versione di me a vent’anni, ora sono l’immagine perfetta della salute mentale.”

      Hannah parve pensarci su mentre prendeva un morso dal suo cono.

      “Quindi mi stai dicendo che fra dieci anni potrei avere un ragazzo che non è per forza come me?” le chiese.

      “Ora chi è che sta usando battute ironiche per evitare verità emotive?” domandò Jessie.

      Hannah le fece una linguaccia.

      Jessie rise ancora e poi diede un’altra leccata al suo gelato. Decise di non spingere oltre. Hannah si era aperta più di quanto avrebbe sperato. Non voleva che la conversazione si trasformasse in un convenzionale scambio figlio-genitore.

      E poi, considerava la disponibilità di Hannah ad ammettere la propria sensazione di alienazione come un buon segno. Forse le preoccupazioni di Garland e della dottoressa Lemmon erano esagerate. Forse la sua costante paura che la sorellastra potesse essere una potenziale serial killer era insensata. Forse la ragazza era una normale adolescente che aveva vissuto un inferno e stava cercando pian piano di tirarsene fuori.

      Mentre guardava Hannah che si puliva il mento da una goccia di cioccolato, decise che avrebbe creduto a questo.

      Almeno per ora.

      CAPITOLO OTTO

      Morgan Remar era sfinita.

      Il suo volo di ritorno dalla conferenza per i Servizi Sociali ad Austin era partito in ritardo. Era così stanca che si era appisolata mentre suo marito Ari la riportava a casa in auto dall’aeroporto. Quando arrivarono a casa loro nel distretto di West Adams, vicino al centro di Los Angeles, erano le undici passate.

      Avrebbe dovuto incontrare Jessie Hunt, la profiler amica di Kat, domani mattina, e voleva farsi una bella nottata di sonno. Ovviamente le era stato quasi impossibile ultimamente.

      Fin da quando era scappata, ormai due settimane fa, si svegliava almeno tre volte a notte, a volte gridando e sempre madida di sudore. Non riusciva a smettere di sentire l’odore di pino del guardaroba nel quale era stata tenuta prigioniera per cinque giorni. Saltava per aria ogni volta che una porta sbatteva o il clacson di un’auto suonava. Temeva che rivivere l’esperienza raccontandola all’amica di Kat avrebbe solo accentuato il tutto.

      Arrivarono a casa e Ari imboccò il vialetto. Nessuno dei due smontò dall’auto fino a che il cancello di sicurezza non si fu chiuso alle loro spalle. C’era già quando avevano

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