L’alibi Perfetto. Блейк Пирс

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L’alibi Perfetto - Блейк Пирс Un thriller psychologique avec Jessie Hunt

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(Libro #14)

I MISTERI DI AVERY BLACK

      UNA RAGIONE PER UCCIDERE (Libro #1)

      UNA RAGIONE PER SCAPPARE (Libro #2)

      UNA RAGIONE PER NASCONDERSI (Libro #3)

      UNA RAGIONE PER TEMERE (Libro #4)

      UNA RAGIONE PER SALVARSI (Libro #5)

      UNA RAGIONE PER MORIRE (Libro #6)

I MISTERI DI KERI LOCKE

      TRACCE DI MORTE (Libro #1)

      TRACCE DI OMICIDIO (Libro #2)

      TRACCE DI PECCATO (Libro #3)

      TRACCE DI CRIMINE (Libro #4)

      TRACCE DI SPERANZA (Libro #5)

      CAPITOLO UNO

      Caroline Gidley se ne stava rannicchiata, con le ginocchia strette al petto per scaldarsi. Anche se ormai era primavera inoltrata, sentiva fresco di notte, soprattutto nelle sue condizioni.

      Era una follia che lei ci potesse pensare come a delle mere ‘condizioni’. Ma dopo quattro giorni legata in una gabbia per cani, con indosso solo mutandine e reggiseno, con una misera coperta sottile a coprirla, questa cosa era diventata ormai quasi normale per lei.

      Era iniziato tutto così innocentemente.  Stava andando alla macchina dopo aver staccato al lavoro, quando un uomo le aveva chiesto le indicazioni per l’autostrada. Si trovavano in un trafficato parcheggio pubblico e lui era così esitante e insospettabile quando l’aveva avvicinata, che lei aveva presto abbassato la guardia. Aveva poi iniziato a rispondergli, voltandosi e indicando verso est.

      Prima di rendersi conto che stava succedendo, lui le era addosso. Le aveva coperto bocca e naso con uno spesso pezzo di stoffa. Poco prima di perdere conoscenza, lo aveva visto aprire il bagagliaio dell’auto accanto alla sua. Le era passato per la testa un ultimo pensiero mentre lui ce la spingeva dentro e richiudeva il portello.

      Ha parcheggiato proprio accanto a me. aveva programmato tutto.

      Quando si era svegliata, si era ritrovata nella gabbia, solo con la biancheria intima addosso, le mani legate davanti a sé con una spessa corda elastica. Si era guardata attorno e si era resa subito conto di trovarsi prigioniera in una specie di edificio cadente. C’erano dei cavi che penzolavano dal soffitto e alcune finestre erano chiuse. Non c’era luce all’interno e i deboli raggi del sole le suggerivano che era stata catturata da diverse ore.

      Neanche l’avesse chiamato con il pensiero, l’uomo era entrato da una grossa porta in metallo. Il cuore aveva iniziato a batterle forte in petto, tanto che pensava potesse sentirlo anche lui. La sua paura era quasi palpabile. Cercò però di scansare quel pensiero e di concentrarsi sul suo rapitore.

      Mentre le si avvicinava, aveva notato diversi dettagli che le erano sfuggiti di primo acchito, nel loro breve incontro. Indossava evidentemente una parrucca. I suoi folti capelli scuri le ricordavano un cantante heavy metal degli anni Ottanta. La sua barba selvaggia era quasi sicuramente finta. E di certo lo era anche il grosso naso stuccoso che portava. Caroline dubitava addirittura che l’uomo avesse effettivo bisogno degli occhiali sfumati dalla spessa montatura che indossava.

      Quando le fu vicino, le sorrise e lei poté notare che anche i denti erano finti. Il suo travestimento era così esagerato da farle sospettare che il suo vero intento fosse proprio di apparire ridicolo.

      “Ciao, Caroline,” le aveva detto, con una pronuncia un po’ blesa che lei sospettò essere dovuta ai denti finti. “Questa è l’unica volta che mi vedrai. Da ora in poi sarai bendata. Non ti ho imbavagliata, ma lo farò se ne sarò costretto. Se in qualsiasi momento tenti di levarti la benda dagli occhi, ti legherò le mani dietro alla schiena invece che davanti. Se tenti di fuggire, dovrò… farti male. Non voglio farlo.”

      “Perché mi stai facendo questo?” gli aveva chiesto lei, cercando di trattenere il terrore dalla voce.

      “Non capiresti. Quelle come te non capiscono mai.”

      Poi aveva tirato fuori qualcosa da dietro la schiena, una specie di fucile a dardi.

      “Per favore,” l’aveva implorato lei, la voce che si spezzava. “Non serve che tu lo faccia.”

      “Ricorda le regole,” le aveva detto lui senza la minima emozione nella voce. “Seguile, e le cose andranno molto meglio per te.”

      Senza aggiungere una parola, aveva sparato un colpo. Caroline aveva sentito la forte sensazione di qualcosa che la pungeva alla coscia sinistra. Poi si era sentita pesantissima. Gli occhi si erano chiusi e il mondo era diventato buio un’altra volta.

      Quando si era svegliata la volta dopo, era bendata come lui le aveva promesso. L’iniziale ondata di panico che aveva provato in quelle prime ore alla fine aveva lasciato il posto alla speranza, per cui iniziò a raccogliere tutte le informazioni che poteva. Poteva seguire lo scorrere del tempo, scandito dai momenti in cui le portava da mangiare, dal relativo calore dell’edificio e dai fasci di luce che filtravano tra le imposte.

      A intervalli regolari lui tornava, le scarpe che riecheggiavano sul pavimento di cemento dell’edificio vuoto. Per quanto Caroline tentasse di controllarsi, quel suono le faceva accelerare il battito. Lo sentiva aprire il lucchetto della gabbia, spostare il cancello, aprire la porta metallica e posare sul pavimento due ciotole. Dato che aveva i polsi legati, Caroline era costretta a lappare il cibo e l’acqua dai loro recipienti come un vero cane.

      Non le consentiva mai di andare in un vero bagno. Era invece costretta a togliersi la biancheria e andare in un angolo della gabbia. Di tanto in tanto lui entrava nella stanza e lavava sia lei e il pavimento con un getto d’acqua. Poi se ne andava di nuovo. Dopo il primo giorno, aveva imparato che la cosa migliore da fare era spingere biancheria e coperta tra i buchi della rete sopra di lei in modo che non si bagnassero quando lo spruzzo d’acqua la colpiva.

      La routine divenne così regolare che ogni minima variazione era per lei fonte di preoccupazione. Per uno dei pasti le portò solo una ciotola, spiegando che dato che era stufato, era sufficiente a soddisfare tutti i suoi bisogni. Un’altra volta lei si svegliò, certa che fosse mattina, ma lui non arrivò che all’ora di pranzo, facendole temere di averla abbandonata del tutto.

      A volte Caroline si ritrovava a chiedersi se anche gli altri l’avessero abbandonata. I suoi amici e la sua famiglia si erano accorti della sua assenza? L’avevano detto alla polizia? Qualcuno la stava cercando?

      Ma fu in quella pungente serata primaverile, mentre tentava di evitare che la sua misera coperta scivolasse giù, schiacciando il corpo contro la parete della gabbia, e mentre stringeva le cosce contro le braccia per impedirsi di tremare, che notò un’altra variazione della routine.

      Quando l’uomo se n’era andato dopo aver recuperato i piatti della sua cena fatto di acqua e fagioli in scatola, lei non aveva sentito il consueto rumore del lucchetto della gabbia che veniva richiuso. L’uomo aveva fatto scorrere il cancello, ma aveva ricevuto una chiamata subito dopo. Allontanandosi per rispondere, aveva lasciato la porta della gabbia aperta.

      Caroline attese, aspettandosi di sentirlo tornare a completare il suo lavoro. Ma dopo quella che stimò essere un’ora, le fu chiaro che non sarebbe successo. Era certa che lui le tenesse una videocamera puntata contro, quindi fu estremamente cauta quando si abbassò leggermente la benda e si guardò attorno.

      Era buio. L’unica luce proveniva dalla mezza luna che faceva capolino tra le finestre

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