Isabella Orsini, duchessa di Bracciano. Francesco Domenico Guerrazzi

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Isabella Orsini, duchessa di Bracciano - Francesco Domenico Guerrazzi

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e nemmeno prendeva vaghezza dei suoni, dei canti, o dei balli; i suoi sguardi cadevano sopra un coro di femmine leggiadre, con minore compiacenza di quella che si fermassero sopra un cespuglio di rose, e infinitamente poi minore di quella, con la quale per piani o per boscaglie teneva dietro al cignale ferito. Nessuno più prestante di lui a balzare di un salto in sella; nessuno più infallibile a lanciare un dardo, o ad assestare un colpo di arcobugio; e per non distenderci in troppe parole, in ogni maniera di prodezza superava facilmente non pure tutti i giovani coetanei, ma si trovava appena chi, anche tra i maggiori, potesse vantarsi a seguitarlo di gran lunga secondo. [pg!26]

      Però, assai più che non conveniva a nobile fanciullo, si mostrava voglioso di garbugli e di risse, e in queste palesava indole feroce; imperciocchè se per forza o per inganno gli veniva fatto superare l’avversario, non così di leggieri si placava, ma chiuso ai miti sensi della pietà e del perdono, continuava a percuotere, finchè o la stanchezza, o gli accorsi al trambusto non glielo avessero cavato di sotto. E poi gli durava il rancore; e guai se un giorno avesse avuto luogo a sfogare il tesoro di vendetta accumulato nel profondo dell’anima! i suoi nemici avrebbero fatto bene a procedere, come suol dirsi, con l’olio santo in tasca. Del rimanente, tenace negli amori quanto negli odii, a esporsi nei pericoli sempre primo, anzi egli solo voleva correrli, e quelli che prediligeva avevano a ristarsene; e ciò non si creda già per amore di lode, o per istudio della gratitudine altrui, chè queste cose non cercava, o sprezzava; ma per generosità naturale, ed anche per un certo sentimento di prevalenza ai suoi compagni, di cui lo ascendente era più facile aborrire che evitare. Piuttosto temuto che amato, piuttosto riverito che seguitato, egli sembrava degnissimo d’impero.

      Ma certa volta accadde, che donna Isabella avendolo chiamato a gran fretta, egli ebbe appena tempo di sbrigarsi dalle mani del suo avversario, e le comparve così com’era sanguinoso davanti. La nobile signora, vedutolo in cotesto stato, con voce sdegnosa gli disse: [pg!27]

      — “Toglietevi dal mio cospetto; voi mi fate orrore.”

      Da quel giorno in poi Lelio non sembra più lo stesso: se intende profferire qualche motteggio, che nei tempi passati avrebbe fatto rientrare in gola con furia di colpi allo incauto parlatore, oggi dal comprimere forte che fa delle labbra, dal rossore che gli accende il viso fino alla radice dei capelli, ci accorgiamo come usi violenza a sè stesso per frenarsi, e sorride più dolce, e benignamente guarda. Nella persona va più composto di prima, e cura con diligenza maggiore la chioma biondissima, e la mondizie degli abiti; però quel bel colore di amaranto, che sfumato gli rendeva così fiorite le guance, adesso è impallidito; il volto ha pensoso, e gli occhi azzurri un poco rientrati sotto le sopracciglia. Ma non è tutto ancora: Lelio si apparta spesso dai compagni, e sta mesto e taciturno a considerare lunga ora o un fiore, o un falco che gira con magnifiche ruote per lo emisfero, una nuvoletta che oscilla perplessa pel sereno celeste, come se i venticelli innamorati se la contendessero; e molto più spesso la sera, sopra il pendío di un colle, con ambe le mani intrecciate davanti alle ginocchia, e la faccia elevata con intentissimo sguardo, contempla il sole che declina, e l’oro, e la porpora, e i doviziosi colori della madreperla e dell’iride, co’ quali il potente padre della vita circonda il suo sepolcro momentaneo. Appena guarda il suo giannetto spagnuolo, che si affatica invano risvegliare [pg!28] lo inerte signore co’ nitriti, e invano il levriere gli corre davanti, poi cuccia uno istante, gli torna incontro, fugge di nuovo a precipizio, gli abbaia intorno, lo guarda, gli lambisce le mani, gli salta addosso: Lelio placidamente co’ cenni e con voce gl’impone starsi quieto, sicchè il povero animale, veduti riuscire inutili tutti i suoi accorgimenti, con gli orecchi bassi e con la coda dimessa si pone a giacere ai piedi del padrone: nè incontravano sorte migliore le armi, quantunque talora le afferrasse come mosso da subita smania, e le trattasse così smoderatamente, da venirne tutto molle di sudore, e sentirsi per alcun giorno prostrato di forze.

      Madonna Isabella possedeva un volumetto delle rime di messer Francesco Petrarca che si toglieva quasi sempre a compagno delle sue passeggiate solitarie: quel libro disparve, chè Lelio se lo era appropriato, e non si saziava mai di leggervi dentro.

      Com’era avvenuta tanta mutazione nel giovane? — Un giorno, mentr’egli tutto sprofondato nel libro si avvolgeva a sghembo pei sentieri del bosco di Cerreto, certe sollazzevoli giovanette della villa lo aspettarono in cima del viale nascoste dietro alle roveri, e gittandogli copia di viole nella faccia, gli dissero ridendo: — “E’ non sono occhi cotesti da logorarsi su i libri: ridi, e fa all’amore!” — E un castaldo giovialone, che passava portando un paniere di uva sopra il capo, ridendo più forte favellò: — “O voi sì, che ve ne intendete! o mira come ei sia innamorato [pg!29] fracido! Si avvicina il finimondo, le nostre ragazze non conoscono più amore.”

      E quando nelle notti serene madonna Isabella, aperti i balconi della sala, diffondeva pel bruno aere torrenti di armonia, cantando e sonando, sia che ripetesse numeri e poesie già composte, o sia che lasciandosi andare alla ispirazione che l’agitava, componesse allo improvviso i versi, e le note alle quali gli sposava, Lelio, come cosa inanimata, se ne stava giù nel giardino appoggiato a un tronco di albero, o ad un piedestallo di statua, e beveva uno incanto fatale, reso più intenso dal tempo, dall’ora, dagli odorosi effluvii, che l’erbe ed i fiori spruzzati di rugiada tramandano, e dalla luce dolcissima che piove dal firmamento stellato; e tanto cotesta estasi rapiva fuori di sè il povero giovane, che chiusi i balconi, remossi i lumi, abbandonati tutti gli animali alla quiete che loro persuade la natura, egli solo rimaneva, immemore, sempre fisso nel luogo medesimo, finchè i primi raggi del sole ferendogli gli occhi non lo richiamassero agli ufficii consueti della vita.

      E prima ch’io continui nel racconto di questo amore, mi giovi dichiarare quello che accennava qui sopra; voglio dire come non per finzione di poeta, ma con verità di storico affermassi la Isabella duchessa di Bracciano dotta in comporre versi e prose e musiche non solo pensatamente, ma anche allo improvviso. Nè qui restavano le virtù della inclita donna, che oltre la lingua materna favellava e scriveva [pg!30] speditamente gl’idiomi latino, francese, e spagnuolo; nelle arti del disegno intendeva quanto qualsivoglia più celebrato maestro; ed in ogni ornamento, che a perfetto gentiluomo si addice, e in ogni maniera di donnesca leggiadria così compita, da esserne reputata meritamente piuttosto maravigliosa, che rara. E tutte le cronache che ci sono capitate tra mano, le quali parlano di questa infelice principessa, quasi concordi adoperano le seguenti parole: — «Basti dire, che ella era estimata da tutti, così vicini come lontani, una vera arca di virtù e di scienze, e per queste sue eroiche virtù l’amavano tutti i popoli, e il padre le portava svisceratissimo amore.»8 — Beata lei, se tanti bei doni di natura, e tanto frutto di discipline gentili avesse saputo, o potuto adoperare a rendere avventurosa la sua vita, e la sua memoria immortale!

      Lelio, quando gli veniva fatto, s’introduceva nella sala d’Isabella, e quivi, speculato bene che nessuno l’osservasse, prendeva gli strumenti sopra i quali le agili dita della sua signora avevano volato, e li baciava smanioso, al cuore se li accostava e alla testa, e di largo pianto bagnavali; e se rinveniva fogli dove Isabella avesse vergato qualche verso, leggeva e rileggeva, e poi provava a formare rime egli stesso; ma comunque l’anima gli traboccasse di poesia, non rispondeva la voce amica a significare tanto e bollentissimo affetto, nè forse sarebbe riuscito a cui per lungo studio si fosse esercitato nell’arte del dire: [pg!31] sicchè fremeva, seco medesimo si corrucciava, e finalmente concludeva cancellando con le lagrime quanto aveva scritto con lo inchiostro. Però quel conforto, seppure possiamo considerarlo tale, gli venne meno: donna Isabella, trovando le sue polite carte imbrattate, nè le riuscendo rinvenire il colpevole, di ora in avanti le ripose con molta avvertenza.

      Ma veramente, eccetto quel guasto dei fogli, donna Isabella non poteva desiderare paggio più assiduo e più diligente di Lelio: dai moti del volto, tanto ei la contemplava fisso, aveva appreso a conoscere i più riposti pensieri dell’animo di lei, nè gli faceva mestieri di altra dimostrazione per soddisfare alla sua signora; la quale assiduità poi cresceva al punto, da comparire fastidiosa quante volte la Isabella conversava col signor Troilo, dacchè egli allora immaginasse mille trovati, o per entrare non chiamato nella stanza, o per non uscirne più. E siccome di rado

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