Isabella Orsini, duchessa di Bracciano. Francesco Domenico Guerrazzi

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Isabella Orsini, duchessa di Bracciano - Francesco Domenico Guerrazzi

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sanguinoso era stata per le donne di casa Medici l’amore! Quel caro giovanetto don Garzia, da lei amato tanto,11 l’aveva abbandonata pur egli; ed ora non le riusciva pensare a lui, senza che la immaginazione le presentasse quel sembiante di angiolo, che vorrebbe parlare, e non può, e si sforza accennarle col capo, e i capelli grondanti sangue gli contaminano tutta la bellissima faccia. E questo pensiero, Dio sa se le pungeva il cuore! imperocchè la fama della tragedia domestica fosse arrivata fino alle sue orecchie, ma la sua anima rifuggisse inorridita nel crederla vera. Il padre Cosimo, che agli altri figliuoli o rigido, o crudele, ella aveva provato tanto benigno, si era dipartito non vecchio ancora dal mondo; e sebbene morendo le avesse lasciato, come segni manifesti della sua predilezione, scudi settemila, un palazzo, scudi tremila sul Pisano, orti ed abitazioni in Firenze, e gioie che valevano un tesoro, tutta questa copia di beni non giovava a procurarle persona amica, in cui sfogarsi, e da cui tôrre consiglio. Del cardinale Ferdinando non era da farsi conto, come quello che uscito giovanissimo di casa, e ridottosi ad abitare Roma, colà aveva riposto il cuore e i pensieri, o se pensava alla casa, lo faceva per orgoglio, e per istudio di maestà, verso la quale si mostrava propensissimo per modo, che in processo di tempo, assunto al trono della Toscana, prese per insegna il re delle api col motto: majestate tantum. [pg!56] E per di più, ella aveva motivo di reputarselo poco amorevole, avendo nei tempi passati favoriti piuttosto che ripresi gli amori di don Francesco con la Bianca; ma si accorgendo poi come cotesta passione mettesse radici profonde, e tali da partorire disordini, aveva tentato riparare al mal fatto, attraversandola con tutto il suo potere; la quale cosa, siccome valse a concitarle contra il rancore cupo di don Francesco e la vendetta della Bianca, non fu efficace del pari a riacquistarle l’amore del cardinale Ferdinando, e molto meno quello della regina Giovanna sua cognata; Giovanna, piissima donna, ma pure donna, e umiliata nelle più dolci affezioni di consorte, di madre, e nella dignità dell’alto lignaggio, vedendo preposta a lei figlia d’imperatore, e regina nata di Ungheria e di Boemia, una avventuriera Veneziana. E quella angoscia, che del continuo le cruciava l’anima e le guastava la salute, la rese all’ultimo desiderosa di vendetta per modo, che una sera passando sul ponte a Santa Trinita, s’incontrò nella Bianca, e fatta fermare la carrozza, ordinò agli staffieri la prendessero e la gettassero in Arno; e se non era il conte Eliodoro Bastigli, uomo veramente dabbene, che le facesse considerare quanto sconvenisse cotesto atto a regina e a cristiana, aggiungendo che se ne rimettesse a Dio, e gli offerisse le tribolazioni in isconto dei peccati, cotesto era l’ultimo giorno della Bianca;12 imperciocchè gli staffieri, non la guardando tanto pel sottile, già si muovevano per metterle addosso [pg!57] le mani. Però non tanto poteva vincere sè stessa la povera donna, che non aborrisse mortalmente chiunque avesse contribuito ad alienarle il cuore del suo consorte; e tra questi parendole, e non a torto, che primeggiasse Isabella, per questa cosa, e per essere d’indole, di voglie, di esercizj, e di studii non solo diversa, ma contraria, non v’era male che non le desiderasse; e comecchè se ne pentisse poi e se ne confessasse, nonostante, prevalendo la inferma natura umana, tornava a odiarla più ardentemente di prima. Di don Pietro, rotto ad ogni più vituperevole atto, immemore non pure della dignità principesca, ma perfino dello essere dell’uomo, non era da parlarne nemmeno. Ahimè! in tanta angustia si trovava sola: nessuno poteva sovvenirla di consiglio e di aita; in quel momento volgeva tra sè pensieri pieni di amarezza; di quei pensieri che lasciano traccia con una ruga sopra la fronte, e nel cuore tal piaga, che Dio solo può sanare, e la morte far porre in oblio.

      Lelio, schiusa la porta della sala, annunziava:

      — “Il molto magnifico cavaliere Lionardo Salviati domanda salutarvi, signora.”

      — “Lionardo Salviati!” ella esclamò: e stata alquanto sopra di sè, soggiunse: “per certo, Dio me lo manda.”

      E Lionardo venne introdotto con le debite cerimonie.

      Non vi è che dire: — l’arte vorrebbe ch’io facessi [pg!58] parlare subito questi due personaggi, e m’ingegnassi inventare un dialogo vivo, gagliardo, e vibrato bene, onde non venisse meno il calore della narrativa; tutto quello che nei racconti o nei drammi impedisce che l’azione proceda spacciatamente al suo fine, vuolsi riprendere come errore: le diverse parti hanno da cospirare allo scioglimento a modo di altrettante linee rette, le quali, come sappiamo, compongono il passaggio più breve da un punto all’altro. E a coloro che avessero potuto dimenticarlo lo ricordava quel dabbene Guizot allora quando ambasciatore a Londra non volle che sopra le sue argenterie s’incidesse altra arme tranne una linea retta col motto «linea recta brevissima;» onde ebbe nome di Catone francese, e a Parigi ne fecero le luminarie e i falò: — non vi pare egli che si acquisti a buon mercato in Francia il titolo di Catone? — Io per me non posso ripetere altro che questo, che chi tale si avvisa ha ragione, ma che io non posso astenermi dal commettere il peccato. Quante volte non succede anche a voi, gentili mie leggitrici, di vedere il bene, ed appigliarvi al peggio! E poi io comincio a invecchiare, ed i vecchi nestoreggiano: di più, allorquando consentiva il mio ingegno a esporre queste ed altre vicende per via di racconto drammatico, io disegnai, dietro la scorta di simile accorgimento, fare conoscere quante maggiori cose per me si potesse relative alle persone e ai tempi sopra le quali e sopra i quali verserebbe il mio racconto. Infatti, io non dico a tutte, ma [pg!59] alla più parte di voi, amabili mie leggitrici, chi darebbe simili notizie ov’io non fossi? Ora che siamo qui in famiglia, confessate se voi avreste mai tempo e pazienza di attingerle dai tomi in-foglio o in-quarto, donde io l’estrassi! volumi pesanti e tarlati, che contaminerebbero la lindura dei vostri candidissimi guanti con una traccia di polvere punto meno orrenda a vedersi del sangue sparso sopra il fianco di Adone. Lasciatemi dunque favellare a mio talento; siate un poco amiche a me, che mi professo tutto vostro, e che quanto più posso, con le ginocchia della mente inchine, vi onoro. Forse potrebbe darsi che io non v’infastidissi: dove però andassi errato, il rimedio sta in facoltà vostra: voi potete fare in quel modo, che in caso simile consigliava messere Lodovico Ariosto:

      Passi chi vuol tre carte o quattro, senza

      Leggerne verso....

      che non per questo rimarrà mozza la storia, o procederà meno chiara.

      Chi era pertanto, e donde veniva questo magnifico messer Lionardo Salviati?

      Messer Lionardo nacque da Giovanbatista di Lionardo Salviati e da Ginevra di Carlo di Antonio Corbinelli. La sua famiglia spesso fu nemica dei Medici. Il cardinale Salviati congiurò co’ Pazzi per distruggerli fino dalle radici, andò fallito il disegno, [pg!60] e così com’era in roccetto, lo appiccarono alle finestre del Palazzo della Signoria. Questo accidente non guastò punto la buona amicizia, e molto meno la buona parentela delle famiglie; ed un Salviati fu genero del Magnifico Lorenzo, cognato di papa Leone Decimo, ed avo del granduca Cosimo, nato da Maria d’Iacopo Salviati, per modo che Lionardo poteva considerarsi parente d’Isabella. Lionardo (sebbene questo non si avesse a dire in quel tempo, ma che può bene palesarsi adesso) contava appena due anni più d’Isabella, ed erano stati educati insieme; sicchè questi le aveva portato e portava svisceratissimo affetto, non altramente che sorella o altra persona più congiunta per sangue si fosse. Dotato di temperatura gentile, e di complessione dilicata,13 poco si trovò acconcio ai violenti esercizj cavallereschi del tempo, e si dette intero agli studii delle lettere e della filosofia. Era pallido in volto, con barba scarsa, ed in sembiante mesto; di lena fu debole, e nonostante ebbe voce assai gagliarda, pronunzia chiara e soave da guadagnarsi l’attenzione; e rendendosi nel discorso più simile a pregante che a comandante, a sua voglia delle orecchie e dello animo s’insignoriva di chiunque favellare lo ascoltava. Il granduca Cosimo nel 1569 lo aveva insignito della dignità di cavaliere di Santo Stefano, ed egli, poco uso a vedere delle cose oltre la scorza, portava la croce rossa devotamente sopra il petto, persuaso che non avesse avuto altro scopo, tranne quello di liberare il sepolcro [pg!61] di Cristo dalle mani dei cani (chè in quei tempi così per vezzo appellavano i Turchi, i quali a posta loro ci pagavano a misura di carboni). Lionardo, nato quando i destini della repubblica erano sepolti, nudrito in corte, parente del principe, e ben veduto da lui, non avendo mai accolte nell’animo le parole ardenti dei libertini, di cui parte ramingava in miserabile esilio, parte aveva

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