Isabella Orsini, duchessa di Bracciano. Francesco Domenico Guerrazzi
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Lelio, schiusa la porta della sala, annunziava:
— “Il molto magnifico cavaliere Lionardo Salviati domanda salutarvi, signora.”
— “Lionardo Salviati!” ella esclamò: e stata alquanto sopra di sè, soggiunse: “per certo, Dio me lo manda.”
E Lionardo venne introdotto con le debite cerimonie.
Non vi è che dire: — l’arte vorrebbe ch’io facessi [pg!58] parlare subito questi due personaggi, e m’ingegnassi inventare un dialogo vivo, gagliardo, e vibrato bene, onde non venisse meno il calore della narrativa; tutto quello che nei racconti o nei drammi impedisce che l’azione proceda spacciatamente al suo fine, vuolsi riprendere come errore: le diverse parti hanno da cospirare allo scioglimento a modo di altrettante linee rette, le quali, come sappiamo, compongono il passaggio più breve da un punto all’altro. E a coloro che avessero potuto dimenticarlo lo ricordava quel dabbene Guizot allora quando ambasciatore a Londra non volle che sopra le sue argenterie s’incidesse altra arme tranne una linea retta col motto «linea recta brevissima;» onde ebbe nome di Catone francese, e a Parigi ne fecero le luminarie e i falò: — non vi pare egli che si acquisti a buon mercato in Francia il titolo di Catone? — Io per me non posso ripetere altro che questo, che chi tale si avvisa ha ragione, ma che io non posso astenermi dal commettere il peccato. Quante volte non succede anche a voi, gentili mie leggitrici, di vedere il bene, ed appigliarvi al peggio! E poi io comincio a invecchiare, ed i vecchi nestoreggiano: di più, allorquando consentiva il mio ingegno a esporre queste ed altre vicende per via di racconto drammatico, io disegnai, dietro la scorta di simile accorgimento, fare conoscere quante maggiori cose per me si potesse relative alle persone e ai tempi sopra le quali e sopra i quali verserebbe il mio racconto. Infatti, io non dico a tutte, ma [pg!59] alla più parte di voi, amabili mie leggitrici, chi darebbe simili notizie ov’io non fossi? Ora che siamo qui in famiglia, confessate se voi avreste mai tempo e pazienza di attingerle dai tomi in-foglio o in-quarto, donde io l’estrassi! volumi pesanti e tarlati, che contaminerebbero la lindura dei vostri candidissimi guanti con una traccia di polvere punto meno orrenda a vedersi del sangue sparso sopra il fianco di Adone. Lasciatemi dunque favellare a mio talento; siate un poco amiche a me, che mi professo tutto vostro, e che quanto più posso, con le ginocchia della mente inchine, vi onoro. Forse potrebbe darsi che io non v’infastidissi: dove però andassi errato, il rimedio sta in facoltà vostra: voi potete fare in quel modo, che in caso simile consigliava messere Lodovico Ariosto:
Passi chi vuol tre carte o quattro, senza
Leggerne verso....
che non per questo rimarrà mozza la storia, o procederà meno chiara.
Chi era pertanto, e donde veniva questo magnifico messer Lionardo Salviati?
Messer Lionardo nacque da Giovanbatista di Lionardo Salviati e da Ginevra di Carlo di Antonio Corbinelli. La sua famiglia spesso fu nemica dei Medici. Il cardinale Salviati congiurò co’ Pazzi per distruggerli fino dalle radici, andò fallito il disegno, [pg!60] e così com’era in roccetto, lo appiccarono alle finestre del Palazzo della Signoria. Questo accidente non guastò punto la buona amicizia, e molto meno la buona parentela delle famiglie; ed un Salviati fu genero del Magnifico Lorenzo, cognato di papa Leone Decimo, ed avo del granduca Cosimo, nato da Maria d’Iacopo Salviati, per modo che Lionardo poteva considerarsi parente d’Isabella. Lionardo (sebbene questo non si avesse a dire in quel tempo, ma che può bene palesarsi adesso) contava appena due anni più d’Isabella, ed erano stati educati insieme; sicchè questi le aveva portato e portava svisceratissimo affetto, non altramente che sorella o altra persona più congiunta per sangue si fosse. Dotato di temperatura gentile, e di complessione dilicata,13 poco si trovò acconcio ai violenti esercizj cavallereschi del tempo, e si dette intero agli studii delle lettere e della filosofia. Era pallido in volto, con barba scarsa, ed in sembiante mesto; di lena fu debole, e nonostante ebbe voce assai gagliarda, pronunzia chiara e soave da guadagnarsi l’attenzione; e rendendosi nel discorso più simile a pregante che a comandante, a sua voglia delle orecchie e dello animo s’insignoriva di chiunque favellare lo ascoltava. Il granduca Cosimo nel 1569 lo aveva insignito della dignità di cavaliere di Santo Stefano, ed egli, poco uso a vedere delle cose oltre la scorza, portava la croce rossa devotamente sopra il petto, persuaso che non avesse avuto altro scopo, tranne quello di liberare il sepolcro [pg!61] di Cristo dalle mani dei cani (chè in quei tempi così per vezzo appellavano i Turchi, i quali a posta loro ci pagavano a misura di carboni). Lionardo, nato quando i destini della repubblica erano sepolti, nudrito in corte, parente del principe, e ben veduto da lui, non avendo mai accolte nell’animo le parole ardenti dei libertini, di cui parte ramingava in miserabile esilio, parte aveva