Isabella Orsini, duchessa di Bracciano. Francesco Domenico Guerrazzi

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Isabella Orsini, duchessa di Bracciano - Francesco Domenico Guerrazzi

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di fermo, oltre ad acquistare la grazia nostra, e gradi, e provvisioni.»24 Per la quale cosa è mestieri confessare, che se molto fidava in Dio, moltissimo confidava ancora nelle archibugiate; o piuttosto, che se è vero che invocasse il nome di Dio, ciò facesse perchè chi usa ingannare gli uomini arriva a tanta insania, da credere di potere prendere a gabbo anche Dio. E per dire qualche cosa ancora intorno alla temperanza d’imporre nuovi carichi al popolo, bastino [pg!68] queste poche parole di uno storico lontano dalle cupidigie del principato, quanto dalle enormità dei libertini: «Aggravò i cittadini e i sudditi con inaudite gravezze, raddoppiando gli antichi tributi, e dei nuovi aggiungendone molti; — nel maneggiare lo imperio ha in gran parte distrutto l’onore e la facultà della patria e di tutta la Toscana.»25

      Pio certamente egli fu, imperciocchè pene immanissime promulgasse contro la bestemmia ed altri peccati, dopo che un terremoto subissò Scarperia, spaventò Firenze, ed in un giorno sette saette fulminarono il Palazzo della Signoria; e soprattutto poi, perchè con prontezza non mai lodata abbastanza, appena ricevuta la lettera di Pio V, che gli faceva pressa di consegnare al Maestro del sacro palazzo monsignor Pietro Carnesecchi, accompagnata dalla commendatizia del cardinale Pacheco; il quale ammoniva Cosimo com’egli di due cose lo avesse lodato presso il papa, cioè non esservi principe in tutta la cristianità più zelante di lui della Inquisizione, e non esservi atto che per suo particolare contento e consolazione, comecchè grave, non fosse per fare eseguire;26 senza punto mettere tempo fra mezzo, avendo il Carnesecchi in casa, anzi pure seduto alla propria mensa, lo fece arrestare, e consegnare al padre Maestro.27 — Questo sagrifizio dei doveri della ospitalità e dei vincoli dell’amicizia, avvegnachè il Carnesecchi in tutta la sua vita si fosse dimostrato devotissimo a casa Medici, ed avesse servito lungamente [pg!69] Clemente VII come protonotaro, e Cosimo come segretario in Venezia; questo sagrifizio di uomo celebrato per bontà e per dottrina dal Sadoleto, dal Bembo, dal Mureto, e dal Manuzio, comecchè l’Ammirato, studioso di scemare la importanza dell’uomo, lo dichiari non ignorante;28 questo sagrifizio, dico, meritava un premio proporzionato, il quale, se non leggiamo pattuito espressamente, apparisce abbastanza promesso nelle seguenti parole nella lettera del 19 giugno 1566, del cardinale Pacheco a Cosimo: «Tenendo ancora per certo, che da questo caso dipenderà gran parte della buona corrispondenza che V. E. deve tenere col papa in questo pontificato.» Infatti, Pietro Carnesecchi nel 3 ottobre 1567 fu decapitato in ponte, e abbruciato,29 e Cosimo nel 4 marzo 1569 fu per privilegio del papa coronato granduca, con facoltà di usare corona ed armi reali. Ma il Carnesecchi andò a morte con maravigliosa costanza, anzi si direbbe con qualche ostentazione di forza, conciossiachè volesse vestire panni elettissimi, e guanti bianchi: Cosimo poi, quando chiuse gli occhi al sonno eterno, era egli ugualmente tranquillo?

      Nonostante questi fatti, noti adesso per trovarsi stampati in tutte le storie, ed allora notissimi per le cose discorse largamente di sopra, io per me vorrei perdonare al Magnifico cavaliere Salviati, se celebrando Cosimo non rifinisse di levare a cielo la clemenza, la strenuità, la prodezza e la mansuetudine sua, e lui ad Augusto preponesse, però che [pg!70] questi ebbe ad usare le proscrizioni, e Cosimo no, quantunque Cosimo si contentasse assomigliare ad Augusto, sotto la costellazione del quale, ch’era il Capricorno, il suo astrologo D. Basilio lo assicurava essere nato;30 ma una colpa, che nè io nè altri possiamo perdonare al Salviati, si è lo insegnamento contenuto nelle parole seguenti, alle quali sentendo ribrezzo di mettere la mano, le riporterò tali quali occorrono scritte: «Quelli che i principati dalle loro patrie o dalle loro repubbliche stati loro profferiti ricusano; ciò facendo, non pure di viltà di animo, ma di empietà ancora, o di arroganza manifestissimo indizio hanno dato. Di viltà, dico, mancando di coraggio, e gli onori rifiutando, e i governi, che sono cose appetibili; di empietà, se atti conoscendosi, hanno negato, in quello che per sè si poteva, di prestar l’opera loro alla patria; d’arroganza, se stimatisi inabili, hanno in questo giudizio a quello della repubblica il lor parere anteposto.»31

      Ahi! messere Lionardo, come tristo ragionare è cotesto! Come suona sofistico e callido, e affatto indegno di uomo grave! Come e dove vi trasportava il mal genio, o il bisogno di mentire adulando! Parrebbevi onestà, se alcuno si prevalesse dei doni di uomo preso da manía? Molto più dei doni che non si possono fare, come la libertà della patria che da Dio viene, e a Dio spetta, ed è inalienabile, perchè non appartiene a nessuna, ed appartiene a tutte le generazioni; e la generazione presente, che disereda [pg!71] i posteri, come nemica del suo sangue non opera alto valido. Sarà arrogante il medico, se non abusa della malattia dello infermo, ma pietosamente lo risana? — I popoli, quando stanchi della propria dignità si accasciano in terra come il cammello invocando qualcheduno che li cavalchi (posto che ciò non avvenga, come suole quasi sempre accadere, per tradimento o per fraude), o si possono, o non si possono guarire: nel primo caso, si guariscono, e poi, se lo esempio di Licurgo sembra duro a seguirsi, si adoperi quello di Solone e di Andrea Doria, o piuttosto scelgasi volontario esilio, dacchè l’uomo mal vive cittadino là dove principe imperava; nel secondo caso, consumato ogni sforzo, come Silla getti la scure, e lo abbandoni alla ira di Dio: almeno tali devono governarsi le anime che il mondo saluta grandi, che partite da questa terra esercitano le lingue degli oratori e le fantasie dei poeti, e finalmente che ricordano derivare l’uomo origine divina. Per forza o per ingegno, offerta od usurpata, a verun cittadino è lecito togliere la libertà alla propria patria: questo contende la morale, questo la pietà, questo la religione di tutti i popoli, e principalmente poi la cristiana. — Sì certamente, la carità cristiana, perchè rigettata la distinzione di San Tommaso come scolastica, e proposta piuttosto a modo di disquisizione astratta che vera in pratica, di tiranno imposto a forza, di tiranno recatosi addosso volontariamente, onesta è quella azione che possiamo eleggere sempre, conforme [pg!72] insegna Aristotele. Ora, come l’occupare la libertà della patria può essere cosa eleggibile in ogni tempo? Per la parte dell’occupante, potrà o vorrà consultare vie via il volere degli occupati? Saprà o vorrà egli conoscere se fu spontaneo davvero, e universale il moto che lo spinse in alto, o quando declini, o quando cessi? Per la parte degli occupati, non può essere a meno che non sia momentanea afflizione e infermità della patria: avvegnachè la patria consista nella fida cittadinanza alla quale consacriamo affetti, reverenza, e, al bisogno, le sostanze e la vita; e questa tolta, la città in cui viviamo non può chiamarsi patria altrimenti, nè merita i mentovati sacrificj. E se la patria è più che madre, chi può ridurre in servitù la propria madre? Se questo offerisse la madre, come insana non si deve ascoltare; se questo accettasse il figliuolo, come empio si deve aborrire. E notate, che simili usurpazioni, come odiosissime, vanno circondate da simulacri bugiardi di libera dedizione; e Giulio Cesare stesso ordinò, nei lupercali lo presentassero di una corona. Inoltre, la libertà, dopo la vita, è preziosissima cosa: ora quanto più ci torna cara una cosa, tanto meno se ne presume il dono; e quando pure potesse alienarsi, potremo supporre ceduta legalmente la libertà in un momento di ebrezza, di furore o di errore? Finalmente la città inferma, immaginiamo, che chiami un cittadino a racconciarle il freno; per certo lo chiama e lo desidera fino a tanto che sia stato conseguíto un simile scopo. Ora, [pg!73] o il cittadino è capace a compiere il presagio della patria, o no: se capace, soddisfaccia al bisogno per cui venne chiamato, e si parta; o non è capace, manca al fine, e si parta. Ma io forse mi affatico a dimostrare quello che non abbisogna punto di prova; quale presunzione, quale insania è mai questa di concludere per via di argomento ciò che la natura e Dio scolpivano nel nostro cuore? — E Lionardo Salviati scrivendo le riferite sentenze, forse non le credeva; lo fece per apparato di eloquenza, o piuttosto per amplificazione rettorica, e si accôrse, comecchè tardi, del torto: ma ormai non era più tempo a ripararlo; sicchè non n’ebbe in seguito mai il viso lieto, maledì l’ora che apprese a scrivere prose, e sconfortato dai disinganni, atterrito da memorie di sangue, supplicò Dio, che lo intese, ad abbreviargli una vita tanto male impiegata in disutile della verità e degli uomini da lui pure amati ardentissimamente.

      Rimarrebbe far conoscere adesso quanto nelle lettere il Salviati nostro valesse; ma non lo concedendo, com’io vorrei, la indole di questo libro, m’ingegnerò come meglio io possa, stringendo in poco il molto. Nelle lingue latina e greca egli fu intendentissimo, della italiana maestro solenne; più apprese, e acquistò tesoro maggiore di dottrina di quella che insegnasse o mettesse fuori, secondo l’uso di quei letterati,

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