Isabella Orsini, duchessa di Bracciano. Francesco Domenico Guerrazzi
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Ma con quanto coraggio, o con quale giustizia potremmo muovere rampogna a Lionardo Salviati, se scrittori solenni, di cui giovi ricordare soltanto Bernardo Davanzati, nel quale il volgarizzamento di Tacito avrebbe dovuto inspirare lo esempio se non dello ardire, almeno del pudore, senza mutare fronte recitavano dai pergami: «la creazione di Cosimo contenere laude divina, avendo egli acquistato il principato, bene di tutti gli umani il più desiderabile e soprano, chiamato per amore, modo di tutti gli altri il più santo e il più giusto; — e per virtù dell’animo, già conosciuta dai suoi in guisa eroica e naturale, averlo spontaneamente fatto principe; — Siena pel suo dolce e piacevole imperio potere quasi dire come Temistocle, fuggitosi in Persia: Se io non perdeva, guai a me, ch’io sarei perduta! — avere a tutti gli sbanditi restituito la patria e gli averi; mite, benigno, pio, clementissimo, diligente a tenere provveduta l’annona [pg!63] onde il popolo non patisse penuria di viveri, a diminuire le pubbliche gravezze studiosissimo sempre, e così alacre cultore della giustizia, che quella amò più di sè stesso; di cui porse manifesto segno allorquando, mentre la guerra ardeva contro Piero Strozzi, pregò Dio che facesse vincere non lui, ma chi avesse mente migliore, e la causa più giusta?»17 Se dunque, dico, da simili e da altre enormezze scrittori nè parenti nè amici non aborrivano, male potremmo muovere rimprovero contro Lionardo, se ignorasse o volesse ignorare le armi apparecchiate dal cardinale Cybo, e la perfidia di Francesco Vettori, di Roberto Acciaiuoli, di Matteo Strozzi, e del più tristo di tutti, Francesco Guicciardini, e i terrori sparsi, e le violenze commesse; e la notte dell’8 gennaio 1537, in cui, Cosimo presente, fu tra i mentovati di sopra, e Alessandro Vitelli, stabilito si eleggesse Cosimo duca, e se il bisogno lo richiedesse, vi si adoperasse la forza; e la mattina del 9, ove tra gli urli dei soldati che gridavano: — Viva il duca e i Medici! — e le minaccie del Vitelli, che giurava se i senatori non si affrettavano ad eleggere il signore Cosimino, erano tutti morti, venne creato spontaneamente duca.
Cosimo aveva promesso al Guicciardino lasciarsi governare da lui; ma per questa volta lo schermitore fu vinto di scherma, e, parve impossibile, da un giovanetto di diciotto anni! Gli aveva promesso ancora di tôrre per moglie una sua figliuola; sennonchè [pg!64] a lui non bastò neanche il cuore di rammentarglielo, e morì avvilito dal disprezzo altrui, e di sè stesso.
È ufficio dello storico (ma io sono un povero narratore di novelle), ebbene, è ufficio di qualsivoglia onesto, riferire i bei tratti di cui si onora questa nostra umana natura. Benedetto Varchi generosamente racconta nel libro quindicesimo delle Storie un’azione generosa: prima di tutto ci ammonisce come nella notte precedente alla elezione spontanea di Cosimo, in una pratica segretissima venisse concluso, ch’ei si creasse duca in ogni modo, quando bene bisognasse adoperare la forza; e poi narra di quell’ottimo Palla Rucellai, che disse arditamente non volere più nella repubblica principi o duchi, e per palesare fatti consuonanti alle parole, prese la fava bianca, e mostratala a tutti la gettò nella borsa esclamando: — “Questa è la mia sentenza.” — Al Guicciardini poi e al Vettori, che di ciò lo riprendevano, notandogli che la sua fava non valeva più che una, rispose: — “Se voi avevate deliberato quello che disegnate di fare, non occorreva chiamarmi;” — e rizzatosi per uscire, il cardinale Cybo lo ritenne con astuta dolcezza, spaventandolo con la mostra delle armi circostanti, e col pericolo che avrebbe potuto correre; ma il valentuomo per nulla sbigottito riprese: — “O messere cardinale, io ho passato sessantadue anni, sicchè poco male oggimai possono farmi.” — Magnanimi esempii sono questi, i quali non possono ricordarsi nè lodarsi [pg!65] abbastanza; e quante volte meco stesso considero, come Benedetto Varchi queste storie per commissione di Cosimo dettasse, a lui medesimo le leggesse, ed egli senza dimostrare animo turbato le ascoltasse, mi è forza concludere, che gli uomini capaci di dire la verità mi paiono anche più rari dei principi capaci di udirla, e le piaggerie essere più spesso una viltà dei cortigiani che una pretensione dei governanti.
Siena, ecco come fu lieta! Di trentamila anime che conteneva sul principio della guerra, si trovò ridotta a dieci: tra miserie, battaglie, e strazii da fare drizzare i capelli, e che possono, da cui ne avesse vaghezza, riscontrarsi nel diario del Sozzini e nei racconti del Roffia, perirono cinquantamila contadini, senza contare punto coloro che in paesi stranieri si refugiarono. Il contado ne rimase deserto, rovinata la cultura dei campi, le industrie distrutte, sicchè tuttavia Siena se ne risente. E così a dire di Tacito, ove fanno solitudine appellano pace. Scipione Ammirato, forse per coscienza, o per orrore, volendo non tradire la verità, e per altra parte non rincrescere ai Medici, con ordinamento dei quali scriveva, prese il partito di lasciare una laguna alla sua storia, e parve il velo dipinto da Timante sul volto ad Agamennone nel sacrificio d’Ifigenia. Bernardo Segni,18 all’opposto, nelle storie che furono pubblicate dopo la sua morte, descrisse questa infamia di Siena concludendo: «Si arresono al duca, avendo perduto [pg!66] tutto il dominio, distrutta ogni loro facoltà; e quasi la vita di tutti gli uomini di quella patria e di quella provincia.»
Circa all’annona, dieci volte fu carestia, e tre volte strinse per modo, che la gente si periva di fame; nè già si creda in piccolo numero, perchè nella carestia del 1554, tra la città e il dominio, morissero meglio di sessantamila persone:19 nel 1549 il grano costò lire ventisette al sacco, nel 1551 lire trentadue; nel 1554 lire trentasei e soldi sedici; e nel 1556 lire quarantadue e soldi dodici.20
Se mite ei fosse e clemente, ne fanno fede certi estratti di memorie manoscritte delle Librerie Magliabechiana e Riccardiana,21 dai quali ricaviamo, centotrenta e più dei principali cittadini di Firenze nel breve giro di pochi anni dichiarati ribelli: quanti capitavano nelle mani, impiccati o decapitati; qualcheduno mandato alle Stinche, a beneplacito, o in galea; parecchi assassinati; a tutti levata la roba, e fino alle donne la dote. Nella più parte dei memoriali in cui veniva supplicato per la vita di qualche ribelle, Cosimo di mano propria scriveva brevemente: s’impicchi.22 In qualche luogo ho letto, che degli assassini stipendiati ne tenesse fino a mille; nè già tutti uomini plebei, ma in parte costituiti in dignità: e poi faceva anche da sè, avvegnachè, lasciando da parte il figlio don Garzia, nessuno storiografo nega che di propria mano trucidasse Sforza Almeni perugino, «lasciando però,» aggiunge Aldo Manuzio, [pg!67] «che i beni di lui andassero agli eredi, ed adempiendo alle volontà del trafitto espresse in certa carta che gli fu rinvenuta nelle tasche.» Non vi pare egli questo un tratto di benignissimo principe?... Della preghiera fatta a Dio nella guerra dello Strozzi perchè desse vittoria alla causa più giusta, possono somministrare buono argomento di verità, e la commissione del vescovo di Cortona mandato in Francia sotto pretesto di complire la regina, ma in sostanza per corrompere i famigli di Piero Strozzi onde gli propinassero il veleno recato seco entro un’ampolla, per cui gli venne nome di vescovo dell’Ampollina,23 e la lettera scritta al capitano Giovanni Orandini conservata nello Annale XII della Colombaria, nella quale leggiamo queste parole intorno all’ordine di assassinare lo Strozzi: «Onde per qualche modo andando a Siena, per via di una archibusata,