Novelle e riviste drammatiche. Arrigo Boito
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Читать онлайн книгу Novelle e riviste drammatiche - Arrigo Boito страница 6
La partita durava già da un paio d'ore; erano circa le nove della sera; alcune signore si allontanarono dalla scacchiera, stanche d'osservare, per darsi quale ad un lavoro, quale ad un ricamo, e quale, caricando e ricaricando la pistoletta da sala, si dilettava al piccolo bersaglio.
I due antagonisti erano sempre fissi al loro posto. L'Americano, che non vedeva ancora lo scaccomatto e che non capiva la selvaggia tattica del negro, cominciava ad annoiarsi ed a pentirsi dell'eccessiva cortesia che l'aveva spinto a quella partita. Avrebbe voluto finirla presto ad ogni costo, anche a costo di perdere; ma dall'altra parte il suo orgoglio di razza glielo impediva; un bianco ed un gentiluomo non poteva esser vinto da uno schiavo; inoltre la sua coscienza di gran giuocatore e il lungo studio de' scacchi non gli permetteva di fare un passo che non fosse pensato. Giunto alla quindicesima mossa, s'accorse che il suo re non s'era ancora arroccato, alzò le mani, colla sinistra sollevò il re, con la destra la torre, e stava già per compiere il movimento, quando scorse nell'occhio del negro un ilare lampo di speranza; non indovinò la ragione; stette ancora coi due scacchi per aria studiando la partita, titubò; l'occhio di Tom seguiva affannosamente, fra la gioia e il timore, i più piccoli segni delle due mani, bianche come l'avorio che serravano. Anderssen, turbato, stava per rimettere al loro posto prima i due pezzi, quando il negro esclamò vivamente:
—Pezzo toccato, pezzo giuocato.
—Lo sapevo,—rispose in modo urbano ma secco, mentre cercava ancora un sotterfugio per evitare la mossa, senza darsene precisamente ragione; ma i pezzi toccati erano due, bisognava giuocarli tutti e due: il codice del giuoco parlava chiaro; non era possibile altro passo che l'arroccamento. Anderssen si arroccò alla calabrista, come dice il gergo della scienza, cioè pose il re nella casa del cavallo e la torre nella casa dell'alfiere. Poi piantò gli occhi nel volto del nemico. Il negro, fatta che vide la mossa tanto sperata e tanto attesa, tornò a fissare più intensamente che mai l'alfiere segnato, ed acceso dalla emozione e dalla sua natura tropicale, non si curava né anche di temperare gli slanci della sua fisionomia. Correva su e giù coll'occhio dall'alfier nero al re bianco, facendo e rifacendo venti volte la stessa via quasi volesse tirare un solco sulla scacchiera. Anderssen vide quelle occhiate, le seguì, notò l'alfiere, indovinò tutto; ma sulla sua faccia non apparve un indizio solo di quella scoperta. Del resto Tom non guardava mai l'Americano; era sempre più invaso dall'idea fissa che lo dominava, Tom in quella stanza non vedeva che una scacchiera, in quella scacchiera non vedeva che uno scacco: fuor di quel piccolo quadrato nero e di quella figura d'ebano, nessuno e nulla esisteva per esso. Coi pugni serrati s'aggrappava agli ispidi capelli, sostenendosi così la testa, appoggiato coi gomiti alla sponda del tavolo; la pelle delle sue tempia, stiracchiata dalla pressione che facevangli i polsi delle due braccia, gli rialzava l'epiderme della fronte; le palpebre, in quel modo stranamente allungate all'insù, mostravano scoperto in gran parte il globo opaco e bianchissimo de' suoi occhi. In questo atteggiamento stette maturando il suo colpo per ben quaranta minuti, immoto, avido, trionfante; poscia attaccò; prese una pedina all'avversario e gli offese un cavallo. L'Americano aveva previsto il colpo. Il fuoco era incominciato. A quella prima scarica rispose un'altra dell'Americano, il quale prese la pedina nera ed offese la torre; cinque, sei mosse si seguirono rapidissime, accanite. La vera lotta principiava allora. A destra, a sinistra della scacchiera vedevansi già alcuni pezzi ed alcune pedine messe fuori di combattimento, primi trofei dei combattenti; l'assalto lungamente minacciato irruppe in tutta la sua violenza; da una parte e dall'altra si diradavano i ranghi, un pezzo caduto ne trascinava un altro, i bianchi facevano la vendetta dei bianchi, i neri facevano la vendetta de' neri, un bianco prendeva ed era preso da un nero, un nero offendeva ed era offeso da un bianco; mai la legge del taglione non fu meglio glorificata. Anderssen cominciava anch'esso ad eccitarsi. Egli aveva tutto preveduto, tutto combinato prima; appena scoperta la trama di Tom, durante quei quaranta minuti nei quali Tom immaginava il suo colpo fatale, Anderssen aveva letto nelle sue intenzioni ed aveva risposto al primo urto in modo da condurre il negro di pezzo in pezzo ad una posizione senza dubbio attraentissima e favorevolissima pel negro stesso; ma voleva trarlo a quella posizione a patto di sacrificargli l'alfiere. Anderssen sapeva già che, tolto l'alfiere, Tom non avrebbe più saputo continuare.
V'hanno degli entomati che non sanno due volte tessersi la larva, dei pensatori che non sanno rifar da capo un concetto, dei guerrieri che non sanno ricominciar la pugna: Anderssen pensava ciò intorno al suo antagonista.
Giunto al varco dove l'Americano l'attendeva, Tom non vacillò un momento, rinunciò alla posizione, sacrificò invece dell'alfiere un cavallo, costrinse l'avversario a distruggere le due regine e la partita mutò aspetto completissimamente.
Il pieno della mischia era cessato, i morti ingombravano le due sponde nemiche, la scacchiera s'era fatta quasi vuota, all'epica furia degli eserciti numerosi era succeduta l'ira suprema degli ultimi superstiti, la battaglia si mutava in disfida. Ai bianchi rimanevano due cavalli, una torre e l'alfiere del re; al negro rimanevano due pedine e l'alfiere segnato.
Erano le undici. Evidentemente i neri avrebbero dovuto abbandonare il giuoco. Gli astanti, vedendo la partita condotta a questi termini, salutarono i due giuocatori e congratulandosi con Anderssen, escirono dalla stanza ed andarono a letto.
Rimasero soli, faccia a faccia, i due personaggi nostri.
Anderssen chiese al negro:—Basta?
Il negro rispose quasi urlando:—No!—e fece un movimento; poi, nella sua agitazione, volle mutarlo….
Anderssen lo interruppe, dicendogli con ironica intenzione:—Casa toccata, pezzo lasciato.
Tom obbedì. Ripiombarono nel più sepolcrale silenzio. La sicurezza della vittoria faceva Anderssen nuovamente annoiato, e già la testa cominciava ad infiacchirglisi ed il sonno ad offuscarlo.
Tom era sempre più desto, sempre più acceso e sempre più cupo.
L'alfier nero stava in mezzo alla nuda scacchiera, ritto, deserto, abbandonato dai suoi; una pedina soltanto gli era rimasta per difenderlo dagli attacchi dalla torre; le altre due pedine erano avanzatissime nel campo dei bianchi: una di queste toccava già la penultima casa. Tom pensava. Le lucerne della sala si oscuravano. Non s'udiva altro rumore fuor che quello d'un grande orologio che pareva misurare il silenzio. Scoccava la mezzanotte quando l'ultima lampada si spense; quel vasto locale rimase illuminato dalla sola candela che ardeva sul tavolo dei giuocatori. Anderssen cominciava a sentire il freddo della notte. Tom sudava.
Il selvaggio odore della razza negra offendeva le nari dell'Americano.
Vi fu un momento che in fondo al giardino s'udì cantarellare il bananiero di Gotschalk da un forestiere attardato che ritornava all'albergo: Tom si rammentò quella canzone, una nuvola di lontanissime memorie si affacciò al suo pensiero; vide un banana gigante rischiarato dall'aurora dei tropici e fra quei rami un hamac che dondolava al vento, in questo hamac