Novelle e riviste drammatiche. Arrigo Boito

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Novelle e riviste drammatiche - Arrigo Boito

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e cantava quella blandissima nenia. Stette così dieci minuti, rapito in queste rimembranze, in questa visione; poi quando tornò il silenzio profondo, riprese la contemplazione dall'alfiere.

      Vi è una specie di allucinazione magnetica che la nuova ipnologia classificò col nome di ipnotismo ed è un'estasi catalettica, la quale viene dalla lunga e intensa fissazione d'un oggetto qualunque. Se si potesse affermare evidentemente questo fenomeno, le scienze della psicologia avrebbero un trionfo di più: ci sarebbe il magnetismo che prova la trasmissione del pensiero, il così detto spiritismo che prova la trasmissione della semplice volontà sugli oggetti inanimati, l'ipnotismo che proverebbe l'influenza magnetica delle cose inanimate sull'uomo. Tom pareva colto da questo fenomeno. L'alfier nero lo aveva ipnotizzato. Tom era terribile a vedersi: egli si mordeva convulsivamente le labbra, aveva gli occhi fuori dell'orbita, le goccie di sudore gli cadevano dalla fronte sulla scacchiera. Anderssen non lo guardava più, perché l'oscurità era troppo fitta e perché anch'esso, come attirato dalla stessa elettricità, fissava l'alfier nero.

      Per Tom la partita poteva dirsi perduta; non erano le combinazioni del giuoco che lo facevano così commosso, era l'allucinazione. Lo scacco nero, per Tom che lo guardava, non era più uno scacco, era un uomo; non era più nero, era negro. La ceralacca rossa era sangue vivo e la testa ferita una vera testa ferita. Quello scacco egli lo conosceva, egli aveva visto molti anni addietro il suo volto, quello scacco era un vivente….. o forse un morto. No; quello scacco era un moribondo, un essere caro librato fra la vita e la morte. Bisogna salvarlo! salvarlo con tutta la forza possibile del coraggio e della ispirazione. All'orecchio del negro ronzava assiduamente come un orribile bordone quella frase che l'Americano aveva detto ridendo, prima d'incominciare la partita:—Se si potesse riattaccare così la testa ad un uomo!—e quell'incubo aumentava l'allucinazione sua.

      La fronte di quella figura di legno diventava sempre più umana, sempre più eroica, toccava quasi all'ideale e, passando da trasfigurazione in transumanazione, da uomo diventava idea, come da scacco era diventata uomo. L'idea fissa era ancora là, nel centro dell'anima del negro, sempre più innalzata, sempre più sublimata. Da mania si era mutata in superstizione, da superstizione in fanatismo. Tom era in quella notte, in quel momento la sintesi di tutta la sua razza.

      Passarono così altre quattro ore, mute come la tomba: due morti o due assopiti avrebbero fatto più rumore che non quei due uomini che lottavano così furiosamente. Il pugilato del pensiero non poteva essere più violento: le idee cozzavano l'una contro l'altra; i concetti cadevano strozzati da una parte e dall'altra. I volti non si guardavano più, le due bocche tacevano. A una certa mossa l'alfier nero perdette terreno, la torre bianca colla sua marcia potente e diritta lo offendeva e ad ogni passo minacciava di coglierlo. L'alfiere schivava obliquamente con degli slanci da pantera la sua formidabile persecutrice; Anderssen seguiva perplesso la corsa furibonda dell'alfiere spingendo sempre più avanti il suo pezzo e rinserrando il pezzo nemico verso un angolo della scacchiera. Questa fuga febbrile, ansante, durò una intiera mezz'ora; i due re anch'essi prendevano parte in questa frenetica scherma; e lottando anch'essi l'uno contro l'altro, parevano due di quegli antichi re leggendarii d'Oriente che si vedevano errare dopo la battaglia sul campo abbandonato, cercandosi ed avventandosi fra loro tragicamente.

      Dopo mezz'ora la scacchiera aveva di nuovo mutato faccia; la fuga dell'alfiere e lo sconvolgimento dei due re, della torre e delle pedine avevano trascinato cosifattamente i pezzi fuori dai loro centri, che il re bianco era andato a finire nel campo nero, sull'estremo quadrato a sinistra; il re nero gli stava a due passi sulla casa stessa del proprio alfiere. Anderssen, abbagliato dalle evoluzioni fantastiche dell'alfier nero, continuava ancora ad inseguirlo, a rinserrarlo, a soffocarlo.

      A un tratto lo colse! lo afferrò, lo sbalzò dalla scacchiera assieme agli altri pezzi guadagnati e guardò in faccia con piglio trionfante la sconfitta nemica.

      Erano le cinque del mattino. Spuntava l'alba. La faccia del negro brillava d'uno splendore di giubilo. Anderssen, nella foga della caccia al pezzo fatale, aveva dimenticato la pedina nera che stava sulla penultima casa dei bianchi alla sua destra. Quella pedina era là già da quattro ore ed egli ne aveva sempre differita la condanna. Quando Anderssen vide quella gran gioia sul volto del negro, tremò; abbassò con rapida violenza gli occhi sulla scacchiera.

      Tom aveva già fatta la mossa. La pedina era passata regina? No. La pedina era passata alfiere, e già l'alfiere segnato, l'alfiere nero, l'alfiere insanguinato, era risorto ed aveva dato scacco al re bianco. Il negro guardò alla sua volta con orgoglio la scacchiera. Anderssen stette ancora un minuto secondo attonito: il suo re era offeso obliquamente per tutta la diagonale nera del diagramma; da un lato l'altro re gli chiudeva il riparo, dall'altro lato era inceppato da una sua stessa pedina. Il colpo era mirabile! Scaccomatto!

      Tom contemplava estatico la sua vittoria.

      Giorgio Anderssen spiccò un salto, corse al bersaglio, afferrò la pistola, sparò.

      Nello stesso momento Tom cadde per terra. La palla l'aveva colpito alla testa, un filo di sangue gli scorreva sul volto nero, e colando giù per la guancia, gli tingeva di rosso la gola ed il collo. Anderssen rivide in quest'uomo disteso a terra l'alfiere nero che lo aveva vinto.

      Tom agonizzando pronunciò queste parole:—Gall-Ruck è salvo… Dio protegge i negri…—e morì.

      Due ore dopo il cameriere che entrò nella sala per dar ordine ai mobili, trovò il cadavere del negro per terra e lo scaccomatto sul tavolo.

      Giorgio Anderssen era fuggito.

      Venti giorni dopo arrivava a New-York, e là incalzato dai rimorsi, si era costituito prigioniero e denunciato come assassino di Tom.

      Il Tribunale lo assolse, prima perché l'assassinato non era che un negro e perché non poteva sussistere l'accusa di omicidio premeditato; poi perché il celebre Giorgio Anderssen si era denunciato da sé, infine perché si era scoperto nelle indagini giudiziarie che il negro ucciso era fratello di un certo Gall-Ruck che aveva fomentata l'ultima sollevazione di schiavi nelle colonie inglesi, quel Gall-Ruck che fu sempre inseguito e non si potè mai trovare.

      Anderssen rientrò nelle sue terre col rimorso nel cuore non alleggerito dalla più tenue condanna.

      Dopo la catastrofe che raccontammo giuocò ancora a scacchi, ma non vinse più. Quando si accingeva a giuocare, l'alfier nero si mutava in fantasma. Tom era sulla scacchiera! Anderssen perdé al giuoco degli scacchi tutte le ricchezze che con quel giuoco aveva guadagnate.

      In questi ultimi anni povero, abbandonato da tutti, deriso, pazzo, camminava per le vie di New-York facendo sui marmi del lastricato tutti i movimenti degli scacchi, ora saltando come un cavallo, ora correndo dritto come una torre, ora girando di qua, di là, avanti e indietro come un re e fuggendo ad ogni negro che incontrava.

      Non so s'egli viva ancora.

       Indice

      I.

      L'epoca di questo fatto ci è ignota; il paese è la Spagna.

      Un cavallo corre furiosamente per campi deserti, un cavaliere lo sprona, nero l'uno, nero l'altro; ravvolti nelle pieghe d'un immenso mantello, sembrano una nuvola d'uragano che voli, radendo la terra, col fulmine in grembo. Il cavaliere nasconde la sua faccia in un ampio cappuccio. Sotto quella tenebrosa coperta si possono supporre tutte le schiatte umane di tutti i tempi, lo spagnuolo, il

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