La vendetta paterna. Francesco Domenico Guerrazzi

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La vendetta paterna - Francesco Domenico Guerrazzi

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e l'odio per qualunque tirannia» non avrà messo ben salde radici nei petti, come per tempo le mise in quello fortissimo di F. D. Guerrazzi.

       Nato a Livorno il 12 agosto del 1805, da gente antica, dedita un tempo all'agricoltura e alla guerra, il Guerrazzi ebbe educazione «popolana e severa», come egli stesso ci dice nelle sue auree Memorie. Il padre, che era lettore fervidissimo della storia di Roma antica, gl'inculcò primo nell'anima l'amore alla libertà e l'odio verso ogni tirannide. Un giorno che il piccolo Francesco Domenico si mostrava meravigliato delle geste di Pompeo e di Catone, il padre gli disse: «Eppure uomini erano e mortali come te!...», facendogli in questo modo capire che egli pure, quando gli fosse bastato l'animo, li avrebbe potuto emulare. E certamente una grande impressione fece sul giovinetto questa sentenza che il padre gli andava spesso ripetendo: «Meglio vale vivere un giorno come un leone, che venti anni come una pecora»; sentenza che Tippoo-Saib volle incisa sui gradini del suo trono.

       Per la libertà e per la patria, suoi santissimi amori, incominciò presto il Guerrazzi a fare, a soffrire.

      Sedicenne, mentre studiava legge a Pisa, venne per un anno bandito dalla università, reo di aver letto e commentato ai compagni i giornali che recarono le novelle di Napoli tumultuante. Gli parve quell'atto, come era, un abuso di potere, e, adiratissimo, andò a Firenze per chiedere giustizia al presidente del così detto buon governo, Aurelio Pilotini. — Questi gli disse di non potere far nulla in suo favore. Egli allora gli rispose, spartanamente: «Io ti compiango, signore, se occupando un posto, dove, anche senza volere, fate del male, e al malfatto non potete riparare, neanche volendo, la vostra coscienza vi consente di rimanere.» — Sono parole che ci dicono quanta fierezza, nella quasi universale paura, albergava nell'anima del giovinetto Guerrazzi; parole che pochi, anche oggi, in tanto strombazzamento di libertà, avrebbero il coraggio di pronunziare dinanzi all'ultimo rappresentante del potere costituito.

       Laureatosi poi in legge, e ritornato a Livorno, nel 1831 ebbe una condanna di sei mesi di confino a Montepulciano, apparentemente per avere espresso idee troppo ardite in un elogio di Cosimo Del Fante, vecchio soldato delle guerre napoleoniche, elogio che egli lesse nell'Accademia labronica, ma in realtà perchè caduto in sospetto di avere aiutata l'Umbria ad insorgere.

       A Montepulciano fu a visitarlo Giuseppe Mazzini. Quelle due grandi anime s'intesero, e suggellarono in un bacio fraterno la loro fede all'Italia. Noi non sappiamo le parole che il Mazzini e il Guerrazzi si scambiarono; ma certamente dovettero essere parole di fuoco.

       Dopo i sei mesi di confino, il Guerrazzi andò a Firenze, smaniosissimo di fare. Colà strinse amicizia con Pietro Colletta, con Gabriele Pepe, col Giordani, col Leopardi, col Capponi, col Ranieri, con quanti erano a Firenze e letterati e patriotti, ma non trovò in tutti lo ardimento che lo animava. I più credevano immaturi i tempi ed erano di avviso che si dovesse ancora aspettare. Egli no; e, d'accordo con pochi, fece. Cercò di rovesciare il governo granducale e di dare così alle cose di Toscana un più libero assetto. Ma, scoperto, fu rimandato a Livorno «con ordine di non uscire dalle porte e ritirarsi a casa alle ore ventiquattro», com'egli ci narra. Oggi si direbbe: fu ammonito. Ciò non per tanto, continuò in Livorno a darsi da fare; e fu largo di aiuti di ogni sorta coi perseguitati dal governo papale che, fuggiti di Romagna, erano di passaggio per la Toscana.

       Stretto in dimestichezza con Giuseppe Mazzini, il profeta dell'Italia, del popolo, fondò con lui e con Carlo Bini, candidissima anima, lo Indicatore Livornese, un foglio che, con la scusa di propugnare il romanticismo, propugnava la rivoluzione.

       Accusato poi di avere aiutata la impresa di Savoja, fu arrestato di notte tempo, messo in prigione «fra, omicidi, donne di mala fama e facinorosi di ogni maniera», e rinchiuso indi a poco nel forte Stella di Portoferrajo, tra i prigionieri di Stato. Colà dentro, nel 1834, in mezzo a patimenti di ogni fatta, scrisse l'Assedio di Firenze, il suo capolavoro, il libro che non morrà. Già il Guerrazzi aveva scritto una tragedia intitolata da Priamo, i Bianchi e i Neri, che furono rappresentati al Teatro Carlo Lodovico di Livorno, tra un uragano di fischi, e la Battaglia di Benevento. Ma dello scrittore diremo poi.

       Nel 1847, ai primi fremiti di libertà che novellamente corsero l'Italia, lanciò fuori la rovente sua lettera al Mazzini, una lettera che quei fremiti aumentava, una lettera che era una scossa elettrica. In essa diceva al grande agitatore genovese: «Vieni, prima che la mia vita cessi, come rivo tra i sassi, nei giorni del sole. Io per aspettarti mi soffermo sopra il limitare della morte, che invoco. Impotente a stringere la spada come il Bardo normanno, mi ti porrò al fianco nel giorno della battaglia vicina; m'avanza qualche immagine di poeta nella testa, qualche affetto nel cuore da potere inalzare un ultimo canto — o la requie — o il trionfo dei valorosi.»

       Corso a Firenze, dove Leopoldo II ondeggiava tra gli austriaci e le riforme, il Guerrazzi arringa il popolo, gli parla di patria, di libertà, lo sprona a fare, a sorgere, a imporre il suo volere al Granduca titubante. È arrestato nel gennaio del 1848 per ordine del Ridolfi, e rinchiuso nel Falcone di Portoferraio. Uscito di carcere in marzo, dopo la proclamazione della Costituente, ricomparisce in Firenze, allora tutta sottosopra, e dagli elettori di San Frediano viene eletto a far parte del Consiglio generale toscano. Nel settembre di quello stesso anno è mandato a Livorno perchè plachi il popolo e lo consigli a non commettere violenze, le quali molto avrebbero compromessa la causa della libertà. Ascoltata è la sua parola, seguito il suo consiglio. Ritornato a Firenze, vien nominalo ministro dell'interno; e, con Montanelli e con Mazzoni, pure ministri, cerca di mantenere il Granduca sulla via delle riforme. Ma il Granduca, impauritosi, fugge. Allora il Guerrazzi, il Montanelli, il Mazzoni, prendono le redini delle cose e costituiscono il governo provvisorio della Toscana. Sventano la congiura del generale Laugier, stato incaricato di sottomettere nuovamente il paese, e si rendono molto benemeriti della patria.

       Nella notte del 27 marzo 1849, viene il Guerrazzi nominato dittatore della Toscana: e, in quella carica, dà prova di alto coraggio e di grande energia. Ha da lottare contro gli austriacanti, contro i lorenesi, contro i moderati, anche contro il popolino, ma non si sgomenta per ciò; lotta e non si lascia vincere. È una fibra di ferro che, non soltanto non si rompe, ma nemmeno si piega. In quei giorni, F. D. Guerrazzi fu veramente grande; grande quanto un reggitore di stati espertissimo; grande quanto un eroe antico.

       Avvenuta, il 12 aprile, la restaurazione granducale, il Guerrazzi fu imprigionato nel forte di Belvedere. Indi, prima che gli Austriaci entrassero in Firenze per accompagnarvi Leopoldo II, fu trasferito nel Maschio di Volterra. Da quel carcere passò, nel novembre del 1849, in quello delle Murate di Firenze; e vi rimase fino al 1853. In questo secondo carcere scrisse parte della Beatrice Cenci e La Vendetta paterna. Così non rimaneva egli inoperoso.

       Fattogli il processo, venne condannato all'ergastolo: ma la condanna gli venne poi commutata in quella di confino in Corsica.

       Si cercò nel processo di coglierlo in fallo per abuso del pubblico denaro, che egli avrebbe commesso nella sua qualità prima di ministro, poi di Dittatore: ma non vi si riuscì. Fu anzi provato che, in tutto il tempo che egli rimase al potere, non solo non aveva abusato del denaro del pubblico, ma vi aveva rimesso «del suo più del doppio dello stipendio.»

       A propria difesa scrisse il Guerrazzi l'Apologia, nella quale vi hanno pagine eloquentissime, che anche oggi non si leggono senza ammirare.

      Il Guerrazzi giunse a Bastia nell'agosto del 1853 e vi rimase fino all'ottobre del 1856. Ivi terminò la Beatrice Cenci e scrisse la novella «Fides».

       Intimatogli poi il «domicilio coatto», fuggì a Capraja, e di lì andò a Genova. Vi rimase fino a che il danno e la vergogna della patria durarono. Nell'epico cinquantanove ricomparve in Toscana, e molto si adoperò per l'annessione di quella terra al regno unito

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