La vendetta paterna. Francesco Domenico Guerrazzi
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«A me? Nessuno.»
«Or dunque, come lo sapete?»
«Io ho veduto morire i figli maledetti.»
«La notte è lunga; e al sonno, quando posa su le palpebre del bandito, par di sedere su i pettini da lino: or dunque narraci questa storia, Orazio; noi ti staremo a udire.»
«Io conto, e narro quando me ne piglia l'estro, disse Orazio riponendosi a giacere sopra il letto di foglie: — voi poi, soggiunse poco dopo, se non sapete logorare meglio o peggio il vostro tempo, fischiate.»
Ma il giovanetto, che soleva cantare le canzoni composte da Orazio, gli si pose accanto; mise le mani incrociate sopra la sinistra spalla di quello, e sopra le mani appoggiò la guancia; poi levando dolcemente gli occhi, così prese piuttosto a mormorare, che a dire:
«Racconta, mio buono Orazio, racconta. Dio ti ha creato apposta per raccontare, come il rosignolo per cantare. — Orazio, in dieci colpi di archibugio tu ne sbagli due; ma le tue storie valgono anche meglio dei tuoi tiri. Orazio, tu sai condurre una imboscata come il Cavaliere dei Pelliccioni[1]; ma più hai talento per esporre un racconto. Tu sai tutto; tu ti sei trovato a tutto. Io penso, che tu ti fossi presente quando Dio appiccò in mezzo al cielo il gran lampione del Sole; tu devi avere insegnato a Noè a pigiare l'uva; e se non portasti mattoni alla torre di Babele ha da essere caso. Se non sapessi che tu sei carne battezzata, io ti crederei quel cane di giudeo che negò a Cristo di riposare all'ombra della sua casa, onde ei ne va condannato a ramingare pel mondo fino alla consumazione dei secoli. Se il Papa ci offrisse una coppia dei suoi cardinali in cambio di te, noi gli diremmo: — Santo Padre, tienti i tuoi cardinali, e lasciaci il nostro Orazio. — Veda un poco papa Clemente se possiede in corte un fiore di lingua come sei tu: forse il Baronio, che scrive storie da far dormire ritti? Racconta, Orazio, racconta una storia; tando tu ci metti quanto a cogliere una rappa di finocchio, e a strofinartene i denti.»
Orazio a mano a mano che il giovanetto parlava si levò su la vita a sedere, gli toccò carezzando i capelli, e così prese a dire:
«E non ci è verso; bisognerà che racconti la storia. Finchè l'uomo vive ha mestieri di un cappellinaio per appiccarvi il gabbano dei suoi affetti, per quanto logoro e rattoppato e' sia; ed io non posso negare niente a questo ragazzo. Il mondo va alla rovescia; gli usignoli incominciano a prendere i rospi: tu mi sforzi a parlare, Genesio, e poi tu piangerai; guarda bene ve' ch'io non ti veda nè ti senta; che alla croce di Dio ti do uno scavezzone da intronarti la testa; e il peggio è, che il caso al solo pensarci sopra mi stringe la gola, e nella zucca non ho goccia di vino. Ad ogni modo udite.»
§ II. Le Terzettate.
Voi altri tutti siete romani di Roma, o della campagna; però di raccontarvi quale e quanta sia la famiglia dei Massimi di santa Prassede io mi passo. Questo poi importa che sappiate, come il marchese don Flaminio requiescat rimanesse vedovo di donna Vittoria Savella, nobile e virtuosa dama se altra mai ne fu pari nel mondo, dalla quale egli procreò cinque figliuoli grandi della persona secondo la loro età, ben fatti a maraviglia e belli... parevano cinque di quelle sette stelle là dalla parte di tramontana, che hanno forma di un pastorale di vescovo: e poi parlavano come Marco Tullio; alcuni di loro cantavano di poesia all'improvviso, ch'era un portento; a spada e a pugnale da stare a petto e a mettere in cervello qualunque cavaliere, o vogli spagnuolo od italiano, che portasse cappa; nelle brigate piacevoli con tutti, festosi; insomma, fra i baroni romani per universale giudizio facilmente primi. Se il vecchio Marchese se ne tenesse lascio considerarlo a voi; e quando gli udiva lodare (cosa che di frequente gli accadeva) dava in pianto di tenerezza, il povero signore, ed esclamava: «Dio, Dio, questa è maggiore felicità di quella che il tuo servo possa sopportare: deh! temperamela con un poco di amaro, onde il troppo giubilo non mi ammazzi!»[2]. Va pur là, sciagurato, che moristi di giubilo! Questo degno barone aveva un cuore come il sole, che quando si leva fa bene a tutti così ai buoni come ai malvagi; alla rosa e all'aconito, a chi piange e a chi fa piangere; e là glorioso, affacciato dalla cima del colle, sembra che voglia dire propriamente così: «il mio ufficio è illuminarvi, esultate: più tardi verrà il mio creatore e il vostro a giudicarvi: io frattanto non condanno, rischiaro.» E poi non poteva fare a meno che non fosse così, perchè egli si reputava, ed era beatissimo; e l'anima nostra quando si sente serena vorrebbe che tutti fossero contenti. L'allegria rende l'uomo buono, e in fondo al fiasco, Dio mi perdoni, si pescano più sentimenti da galantuomo che su la bocca di un padre predicatore: ad ogni modo le prediche mi fanno dormire, e il vino cantare; e da noi vuolsi cosa ben truce stanotte, dacchè è chiaro che il signor nostro lasciandoci senza vino intende che ci sprofondiamo in pensieri di tristezza, brutta semenza d'iniquità.
«Pur troppo! sospirò il vecchio Ciriaco, Orazio parla come un libro stampato. Ed io ancora mi buttai alla foresta quando mi ebbero impiccato Trofimo... il povero figliuolo. Che cosa aveva io a fare?... Lo aveva unico, e solo... e sua madre... meschina! ne morì di dolore... oh! oh!»
Queste parole caddero sopra l'anima dei circostanti lugubri quanto l'antifona del miserere. Il buio denso della notte rotto a quando a quando dalla fiamma, che prorompeva crepitante... cessava, e tornava a comparire; il singulto degli uccelli notturni nel profondo del bosco, l'ora, la esitanza delle lunghe insidie, la memoria del passato, la minaccia dell'avvenire e l'aspettativa paurosa del racconto percuotevano il cuore, e lo empivano di affanno.
Orazio proseguiva con voce più cupa:
Voi potreste giuocare più presto agli aliossi con gli obelischi di papa Sisto, e mettervi in capo la cupola di san Pietro per morione, che cancellare una virgola dallo scartafaccio della sorte. Che cosa è mai questa sorte? Lo sapete voi? no: ed io? nemmeno. La sorte è una forza, che ti conduce per mano, se acconsenti, e ti strascina pei capelli, se resisti. La sorte è una necessità, che quando tu vai a dormire si pone a giacere teco, e ti si caccia sotto il capezzale; quando ti levi ti salta addosso prima della camicia: non dorme, perchè non ha palpebre; non si commuove, perchè ha viscere di pietra; le preghiere entrano nelle sue orecchie come la brinata in quelle delle statue di bronzo, e vi fanno effetto pari... ed ora, che cosa avete capito? Nulla; ed io quanto voi. La sorte è sorte; ciò è il più e il meglio che possiamo dirne, come di mille altre cose di questo mondo; e tiriamo innanzi.
Marcantonio Colonna, il famoso nostro barone, che fu tanta parte della batosta che dettero i Cristiani a quei cani senza fede dei Turchi nella battaglia di Lepanto, pei molti meriti suoi venne eletto vicerè di Sicilia, dove sua virtù corrompendosi, siccome suole ordinariamente avvenire al soldato negli ozi della pace, ed essendo per natura inchinevole alle cose di amore, viziò una fanciulla bellissima di nobile parentado, e la tenne seco pei suoi piaceri. Le passioni nei petti di questi signori fanno come le rondini; sono di passo. Ormai al signor Marcantonio della sua bella Siciliana premeva più, che tanto; ma la generosità romana, la quale abita come in casa propria nel cuore di cotesto barone, non gli consentendo lasciare dietro sè quella meschina in balia del furore dei suoi parenti, i quali l'avrebbero senza fallo ammazzata, quando cessò dall'ufficio se la condusse a Roma. Però donna Rosalia, che tale aveva nome la bella Siciliana, stavasene in palazzo Colonna albergata magnificamente, e nutrita in sembianza di dama della Principessa madre; la quale essendo quella saputa e discreta matrona che tutti voi conoscete, andava pietosamente rammendando come meglio poteva gli strappi del figliuol suo.
Ora don Flaminio Massimi, per essere nato da donna Fulvia Colonna e per la molta bontà e piacevolezza sue, aveva entratura grande con Marcantonio e con la madre di lui: per la qual cosa usando frequentissimo in casa Colonna, non potè fare a meno di mettere gli occhi addosso alla bella Siciliana; e parendole, come veramente ella era, leggiadra molto e sventurata, gli venne al cuore una immensa passione