La vendetta paterna. Francesco Domenico Guerrazzi

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La vendetta paterna - Francesco Domenico Guerrazzi

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poi a Caltanissetta, finchè, nelle elezioni del 1870, con patente ingiustizia ed ingratitudine, non venne lasciato in disparte; di che molto egli si accorò ed indispettì.

       Nella camera dei deputati il Guerrazzi sedè costantemente a sinistra, e spesso parlò, ascoltato sempre. Memorabile è il discorso che pronunziò contro la cessione di Nizza alla Francia. Disse parergli delitto levare col voto la patria a Garibaldi, quando egli, per ridarci con la spada la nostra, aveva messo a repentaglio la vita; e ammonì che cedere Nizza alla Francia era lo stesso di conficcare un chiodo nella bara della unità italiana.

       Generose, magnanime parole, ma vane!

       Contro la setta dei moderati, come egli la chiamava, il Guerrazzi se la prese a morte, e attribuì ad essa tutte, o quasi, le disgrazie che poi all'Italia derivarono. Ma se egli avesse vissuto ancora, avrebbe detto forse egualmente di coloro che ai moderati successero nel governo della cosa pubblica, poi che gli uni non gli sarebbero parsi molto migliori degli altri.

       Ritiratosi a vita privata, nella sua nativa Livorno, fu spettatore di vergogne e di codardie senza nome, e ne rimase stomacato. La ingratitudine della nuova Italia, al cui risorgimento sapeva di aver tanto contribuito, lo ferì nel più vivo dell'anima. Mentre il governo livornese gli aveva fatto offrire una cattedra di letteratura nella università di Pisa, cattedra che egli sdegnosamente rifiutò, nessuna offerta gli venne mai fatta dal governo della nuova Italia, nemmeno quella del più umile posto di professorucolo, quasichè valesse egli di meno dei tanti ex preti, ex frati, ex austriacanti, ex Borbonici, ex papalini, verso dei quali i ministri della monarchia furono così prodighi d'impieghi e di onorificenze.

       Il Guerrazzi, nauseatosi della vita cittadina, ove tanto fango aveva visto agitarsi, si ritirò nei suoi ultimi anni al Fitto di Cecina, nella forte Maremma toscana, e colà visse «in compagnia del mare, delle foreste scarmigliate dal vento e della malaria, invocando, e non potendo ottenere, pace», come egli stesso ebbe a scrivere. Dalla fiera solitudine del Fitto di Cecina levava di tanto in tanto la voce a difesa dei diritti del popolo e a condanna di coloro che quei diritti ledevano, e le parole del vecchio solitario avevano un'eco potente in tutta l'Italia. — Vicino a morire, e conscio del suo prossimo fine, manteneva tutta la fierezza della gioventù, tanto da scrivere ad un amico: «Riapro il mio testamento per ordinare che, morto, mi brucino, e la cenere conservino in casa. La mia pelle, per gli Dei superi ed inferi, non servirà da tamburo in fiera ai ciarlatani moderati.»

       La morte lo colse improvvisamente al Fitto di Cecina nella sua villa della Cinquantina, la sera del 23 settembre 1873. Ebbe grandi funerali di popolo, ai quali tutta Italia prese parte in ispirito, ed onorata sepoltura vicino alle ossa paterne, sul monte a capo della terra che gli fu culla, come, prima che lo sdegno gli suggerisse le sopra riportate parole, era stato suo desiderio.

       A quella tomba le madri italiane conducano i figli, e dicano loro le parole che nella splendida introduzione alla Beatrice Cenci il Guerrazzi scrisse di sè:

       «Qui dentro riposa un uomo, che ebbe la fortuna nemica fino dall'ora che gli versarono sul capo l'acqua del battesimo: tutta la sua vita fu una lunga lotta con lei; ma le lotte con la fortuna assomigliano a quella di Giacobbe con l'Angelo. Superato, non vinto, amò, soffrì e si travagliò del continuo pel decoro della Patria. Non provò amici popoli, nè principi; — lo saettarono tutti. Dall'alto e dal basso gli lanciarono strali crudeli. Parte di vita gli logorarono le carceri; parte l'esilio. Prigioniero, meditò e scrisse: libero, si affaticò per la salvezza comune, e principalmente per quella de' suoi nemici ed emuli. Invano la ingratitudine tentò riempirgli l'anima d'odio. Le acque dell'affanno lasciavano ogni amarezza nel passargli sul cuore. Offeso, gli piacque la potenza, e la ebbe per dimostrare col fatto, che tenne la vendetta passione di menti plebee: nè perdonava soltanto, ma (più ardua cosa assai) egli obliò.

      «La spada della legge, confidata nelle sue mani, non convertì in pugnale di assassino. — Quando altro non potè fare, col proprio seno tutelò la vita di uomini che sapeva essergli stati, e che avrebbero durato ad essergli, nemici. — Il popolo un giorno lo ruppe come un giuoco da fanciullo; i potenti lo gittarono alle moltitudini insanite come schiavo nel circo delle fiere. Consumato nelle viscere, egli cadde sopra un mucchio di rovine e di speranze; e non pertanto, morendo, lasciava alle genti il desiderio di costumi migliori, e di tempi meno infelici. Le sue dita, con ultimo moto, segnarono per testamento sopra questa terra desolata le parole: Virtù, Libertà.» —

       La forte, l'eroica, la socialistica Livorno decretò a quel suo grande figliuolo un monumento; e questo sorse il 17 maggio 1885, nella piazza che da F. D. Guerrazzi prese nome. Bene! Ma perchè raffigurare il Guerrazzi seduto, in atteggiamento di un notaio che stia rogando un suo atto, o di un fattore che pensi i saldi annuali? — Il Guerrazzi, o scultore Lorenzo Gori, doveva essere raffigurato su dritto della bella, della nobile persona, su fieramente impettito, tutto muscoli, in atto o di contemplare, superbo e sdegnoso, le bassezze pullulantigli ai piedi, o di gittare alle turbe la parola della libertà, la fatidica parola contenuta nei libri di lui. Oltre che con le azioni valorosissime, il Guerrazzi lavorò alla effettuazione del suo bello e forte ideale con le opere dello ingegno: esse, può dirsi, furono tutte a questo scopo dirette.

       E bene a ragione poteva egli scrivere al Mazzini: «Scopo supremo per me era tentare se scintilla alcuna restasse nel corpo della patria per accendere di vita le presenti e le future generazioni. Non mi pareva che corresse stagione di badare come le acconceremmo il manto o la corona; la questione era quella d'Amleto: essere o non essere. Tutto il mio concetto sta in questi versi di Francesco Petrarca:

       «Che si aspetti non so, nè che si agogni

       Italia, che i suoi guai par che non senta,

       Vecchia, oziosa e lenta.

       Dormirà sempre, e non fia chi la svegli?

       La man le avess'io avvolta entro i capegli!» —

       «Quindi reputai carità adoperare tutti i tormenti praticati dagli antichi tiranni, e dal Santo Uffizio, ed altri ancora più atroci inventarne per eccitare la sensibilità di questa patria caduta in miserabile letargia; io la feriva e nelle ferite infondeva zolfo e pece infocati; la galvanizzava, e Dio solo conosce la mia tremenda ansietà quando le vedevo muovere le labbra livide e gli occhi spenti».

       Non potendo egli combattere una battaglia, scriveva un libro; ed il libro, diremo con Giuseppe Mazzini «aveva in sè tutte le ispirazioni, tutte le alternative, tutto il furore d'una battaglia»; — il libro era una battaglia veramente. Contro chi? — Contro i nemici della patria e del popolo, chiunque si fossero, da dovunque venissero, prima contro i tiranni estranei, poi contro quelli indigeni, contro tedeschi, contro preti, contro moderati, contro tutti furfanti. E le pagine del Livornese bruciavano come tizzoni ardenti, come bottoni infocati, tagliavano come spade affilate, come baionette, come mannaie, facevano piaghe profonde, sanguinanti permanentemente, non rimarginabili.

       I colpiti dalla prosa del Livornese non trovavano più pace, quella prosa li stigmatizzava, l'infamava, li metteva alla berlina. Erano allegre vendette quelle del Guerrazzi, fatte in nome dell'Italia e del popolo! Si leggano la Battaglia di Benevento, l'Assedio di Firenze, la Beatrice Cenci, il Pasquale Paoli, il Secolo che muore, l'ultimo lavoro di lui, e si giudichi. Si giudichi se i libri del Livornese sono o no battaglie campali; se in essi il Livornese riuscì o no a rimescolare cielo, terra e inferno. L'Italia la rimescolò tutta, da un capo all'altro. La sua Battaglia di Benevento e il suo Assedio di Firenze furono il «sorgi e cammina» gridato alla patria che pareva cadavere.

       In proposito del Guerrazzi bene osserva

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