Ben Hur: Una storia di Cristo. Lew Wallace

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Ben Hur: Una storia di Cristo - Lew Wallace

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staccionata per gli animali. In un villaggio come Betlemme, siccome non v'era che uno sceicco, non ci poteva essere più di un Khan; e sebbene nato in quel luogo, il Nazareno, dopo aver a lungo vissuto altrove, non aveva alcun diritto ad ospitalità nella città. Inoltre, l'enumerazione per la quale egli veniva poteva essere lavoro di settimane o di mesi. I legati Romani, nelle provincie, erano conosciuti per pigri, e, mettere sè stesso e la moglie per un periodo così incerto a carico di conoscenti o di parenti, non era possibile. Così, prima di avvicinarsi alla gran casa, mentre saliva il versante, cercando nei posti più scoscesi di sollecitare l'asino, il timore di non poter trovare da accomodarsi nel Khan divenne una dolorosa ansietà, perchè egli trovò la via affollata di uomini e di ragazzi, che, con gran chiasso, spingevano il loro bestiame, cavalli e cammelli, su e giù per la valle, alcuni per abbeverarli, altri alle vicine caverne. Ed allorchè si avvicinò, il timore non si mitigò scoprendo una folla che stipava la porta dello stabile, mentre l'attiguo recinto, largo com'era, sembrava già pieno.

      — «Noi non possiamo arrivare alla porta. — disse Giuseppe col suo parlare lento — fermiamoci qui e cerchiamo di sapere, se possiamo, ciò che è accaduto.» —

      La moglie, senza rispondere, tranquillamente si tirò indietro il velo.

      L'aspetto affaticato che prima mostrava il suo viso mutò, assumendo un che di interessante.

      Ella si trovò vicino ad un gruppo di persone che non potean esser altro che un oggetto di curiosità per lei, benchè fosse abbastanza frequente il ritrovarne nei Khan comuni agli stradoni che le gran carovane solevano attraversare. V'erano uomini a piedi che correvano di qua e di là parlando con voce stridula e in tutte le lingue di Siria; uomini a cavallo che urlavano; uomini sui cammelli; uomini che si affaticavano dietro ai buoi infuriati e alle pecore impaurite; uomini che vendevano pane e vino; e, fra la moltitudine, una turba di ragazzi apparentemente a caccia di una muta di cani. Tutti e tutto sembravano muoversi nel medesimo tempo. Forse la bella spettatrice era troppo stanca per esser a lungo attratta da quella scena; dopo un po' ella sospirò e si accomodò sul suo cuscino, e, come se fosse un ora di pace e di riposo, o in aspettativa di qualcuno, guardò lontano al sud e alle alte rupi del monte del Paradiso, che eran leggermente arrossate dal sole che tramontava.

      Mentre ella stava guardando un uomo si spinse fuori della folla e fermandosi vicino all'asino osservò, incuriosita, il gruppo. Il Nazareno gli chiese:

      — «Poichè io sono ciò che credo voi siate, buon amico, — un figlio di Giuda — posso domandarvi la causa di questo assembramento?» —

      Lo straniero si voltò bruscamente, ma, visto l'aspetto solenne di Giuseppe, fu così compreso della sua profonda, lenta voce e dal suo discorso che alzò la mano in cenno di saluto e rispose:

      — «Pace sia con voi, o Rabbi! Io sono un figlio di Giuda e vi risponderò. Abito in Beth-Dagon che, voi sapete, è ciò che una volta era la terra della tribù di Dan.» —

      — «Sulla via fra Joppa e Modin — interruppe Giuseppe.» —

      — «Oh voi siete stato in Beth-Dagon — disse l'uomo raddolcendo sempre più il suo viso. — Che persone girovaghe siamo sempre noi, figli di Giuda! Son parecchi anni che manco dal luogo — il vecchio Ephrath come lo chiamava nostro padre Iacob. Ci ritorno ora che si è diffuso l'editto che richiede agli Ebrei d'esser computati per le tasse nella città della loro nascita. Questo è ciò che vengo a far qui, Rabbi.» —

      Il viso di Giuseppe rimase impassibile mentre osservò:

      — «Io pure venni per questo con mia moglie.» —

      Lo straniero lanciò uno sguardo a Maria e tacque. Ella guardava in alto, verso la nuda cima del Gedor. Il sole accarezzò il suo viso rivolto all'insù e le illuminò gli occhi; sulle sue labbra dischiuse corse un fremito. In quel momento tutta l'umanità della sua bellezza sembrava purificata: ell'era come sono immaginati da noi coloro che siedono vicino alle porte del Cielo. I Beth-Dagon videro l'originale di ciò che secoli dopo divenne una visione pel genio di Sanzio il divino e lo rese immortale.» —

      — «Di che cosa stavo parlando? Ah! ora mi ricordo. Stavo per dire che allorquando udii dell'ordine di venir qui andai in collera. Ma pensai poi alla vecchia collina, alla città e alla valle sovrastante alla profondità del Kedron; ai vigneti e agli orti e ai campi di grano, fruttiferi fin dai giorni di Booz e di Ruth; alle montagne conosciute — Gedor qua — Gibeah un po' più lontano e Mar Elias là — che, quando ero ragazzo, erano per me i confini del mondo; perdonai i tiranni e venni — io con Rachele, mia moglie — e Deborah e Micol le nostre rose di Sharon.» —

      L'uomo si fermò di nuovo guardando bruscamente Maria, che ora lo guardava e lo ascoltava.

      Poi disse: — «Rabbi, non vorrebbe vostra moglie andar dalla mia?

      La potete veder laggiù coi bambini, sotto all'olivo, allo svolto della strada.

      Vi accerto — egli si voltò verso Giuseppe e parlò in tono sicuro — che il Khan è pieno. È inutile chiederlo alla porta.» —

      La volontà di Giuseppe era malferma e la sua mente vagolava nel vuoto; egli esitò ma rispose:

      «L'offerta è gentile. Che vi sia o no posto per noi nella casa verremo a trovar la vostra famiglia. Lasciatemi discorrere col portinaio. Torno subito.» —

      E mettendo le redini nelle mani dello straniero si spinse fra la folla rumorosa. Il portinaio sedeva sopra un ceppo di cedro fuor della porta. Al muro, dietro di lui, stava appesa una freccia. Un cane gli era accovacciato vicino, sul ceppo.

      — «La pace di Jeova sia con voi» — disse Giuseppe, finalmente, affrontando il portinaio.

      — «Ciò che dite vi sia ricambiato e qualora lo sia si moltiplichi molte volte per voi e per i vostri figli — replicò il guardiano gravemente, però senza muoversi.

      — «Io son di Betlemme — disse Giuseppe nel modo più calmo — non vi sarebbe posto per me?» —

      — «Non ce n'è più.» —

      — «Voi avrete udito parlare di me, Giuseppe di Nazareth. Questa è la casa dei miei padri. Io son discendente di Davide.» —

      Queste parole davano speranza al Nazareno. Se gli fallivano, sforzi ulteriori sarebbero stati vani, anche quelli dell'offerta di molti sicli. L'essere un figlio di Giuda era una cosa grande nell'opinione della stessa tribù ma l'esser della casa di Davide era anche cosa maggiore; su lingua di Ebreo non vi poteva esser vanto più fiero. Mille anni e più erano trascorsi da che il pastore fanciullo era divenuto successore di Saul e aveva fondato una famiglia. — Guerre, calamità, altri re ed innumerevoli fatti, causa della mutevole fortuna, ritornarono i suoi dipendenti al medesimo livello degli Ebrei comuni; il pane ch'essi mangiarono venne dal lavoro penoso se non dal più umile; non di meno essi ebbero sempre il prestigio della gloriosa tradizione, prestigio mantenuto religiosamente, e vantarono la genealogia; non avrebbero potuto rimaner oscuri perchè dovunque si recavano pel regno d'Israele godevano di un riverente rispetto. Così avveniva a Gerusalemme e altrove; certo uno della sacra discendenza poteva con ragione fare assegnamento su ciò per entrare alla porta del Khan di Betlemme.

      Dicendo come disse Giuseppe: — «Questa era la casa dei miei padri» — era dir la verità, semplice e pura, poichè quella era la stessa casa ove aveva signoreggiato Ruth come moglie di Booz; la stessa nella quale eran nati Jesse ed i suoi dieci figli, Davide il minore; la stessa casa in cui Samuele era venuto a cercare il re e lo aveva trovato; la stessa che Davide aveva dato al

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