Lettere di Lodovico Ariosto. Lodovico Ariosto
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L'offerta di andare al governo della Garfagnana fra un popolo rozzo, turbolento ed inquieto, diviso da fazioni, guasto da spessi mutamenti di padroni, pieno di banditi per l'opportunità di varî confini, non poteva piacere all'Ariosto; ma presentando d'altra parte molti vantaggi pecuniarii per tasse e diritti inerenti alla carica[103], vinto dal bisogno, l'accettò. Ignorando quanto tempo sarebbe stato lontano da Ferrara, incerto della sorte che lo attendeva, fece il 12 febbraio il suo testamento, si disgiunse con dolore dalla Benucci, e in compagnia del figlio Virginio partì alla volta di Castelnovo ove giunse il dì 20 dello stesso mese. Narra il Garofolo che Lodovico «nell'andare al commissariato.... convenendogli presso a Rodea passar per mezzo a una compagnia d'uomini con armi che sedevano sotto diverse ombre, non sapendo chi si fossero, andò oltre non senza qualche sospetto per esser quelle montagne allora molto infestate da ladronecci per le fazioni di certo Domenico Morotto e di Filippo Pacchione capitali nemici. Ora essendo passato avanti un tiro di mano, colui ch'era capo loro dimandò al servitore ch'era più addietro degli altri, chi fosse il gentiluomo; e udito ch'era Lodovico Ariosto, subito si mise così com'era armato di corazza e di ronca a corrergli dietro. Lodovico vedutolo venire si fermò, non ben sicuro come avesse a seguire il fatto. Colui giuntogli presso e riverentemente salutatolo, gli disse ch'era Filippo Pacchione, e gli domandò perdono se non gli avea fatto motto nel passar oltre, perocchè non sapeva chi egli fosse; ma che avendolo inteso dipoi, era venuto per conoscerlo di vista come molto prima l'aveva conosciuto per fama: e nel fine fattogli cortesi inviti umilmente si licenziò da lui»[104]. Questo fatto ammesso per vero dal Baruffaldi potè solo a nostro giudicio accattar origine da qualche segno di rispetto che taluno de' faziosi o fautori di essi ebbe poi ad usare verso l'Ariosto (com'è detto a pag. 80), convertendolo in un incontro occorsogli presso Rodea (Roteglia) nell'andare al commissariato (ossia nel suo primo viaggio); e ciò allo scopo di accrescere alla vita del poeta una nuova situazione d'interesse drammatico. Incontro che non potrebbe ammettersi fuorchè in un viaggio successivo e in una stagione diversa dalla invernale del febbraio, in cui que' luoghi sono quasi sempre coperti di neve e poco acconci in allora a sedere sotto l'ombre (non già degli alberi che avevano ancora da rinnovare le foglie); e giacchè inoltre l'Ariosto stesso, cui dobbiamo attenerci, non mancò in un'elegia[105] di esporci questo suo viaggio accompagnato da rabbiosa procella d'acqua e venti che prendeva ognora maggior possanza, ferivagli come acuto strale il volto, e col fango impediva al suo cavallo di affrettarsi per la via alpestre e lunga. Sembrava, egli dice, che il cielo meritamente lo punisse d'essersi dipartito dalla sua donna, di aver chiuse le orecchie alle preghiere di lei, di aver promesso di assumere un carico che tanto lo allontanava da Ferrara. Era pentito, ma non gli era lecito ritornare indietro: solo il cuore mille volte ogni giorno sarà costretto di farlo!
Giunto a Castelnovo, capoluogo della Garfagnana, l'Ariosto cominciò subito le fastidiose cure del suo governo, udendo ognora accuse e liti, furti e omicidi; pregando gli uni, minacciando gli altri, e scrivendo ogni giorno al duca per consiglio ed aiuto[106]. Obbligato a lasciare in abbandono i dolci suoi studi per aver sempre villani alle orecchie[107], sol dopo un anno fece il primo motto alle Muse, dirigendo al cugino Sigismondo Malaguzzi la Satira V ove descrive la vita ch'egli colà conduceva, e che riceve bel riscontro e accrescimento di fatti dalle Lettere di lui che qui si producono. Alcune di esse dànno prova della bontà del suo cuore, altre della sua giustizia e imparzialità, molte della sua sagacia e accortezza politica, la maggior parte della mala condizione di quella provincia. E perchè il duca immerso in cure più gravi non gli prestava il braccio forte ch'egli richiedeva, e lasciavalo con pochi balestrieri incapaci di affrontare i banditi e gli assassini ch'erano più di loro (pag. 200), così l'Ariosto si mostrò ridotto all'alternativa di dover proporre misure estreme di ferro e fuoco sopra le sostanze de' banditi, loro congiunti e aderenti (p. 163), e così contro i campanili, le canoniche e per fino le chiese, che in causa delle immunità ecclesiastiche servivano loro di sicuro ricovero[108]. Poco propenso verso i preti, che per negatagli autorità dai vescovi e dal duca non poteva castigare se mancavano (pag. 103), li fa colpevoli di favorire i malfattori; ma dice al tempo stesso che non ponno fare altrimenti (pag. 222), essendo invalsa presso tutti la tema della loro vendetta se non li nascondono (pag. 171), e dicendosi minacciati della vita se parlano (pag. 236). Per ovviare in parte a tanti disordini, l'Ariosto concluse il 20 giugno 1523 a nome del duca una lega colla Repubblica di Lucca, che mandò il suo bargello agli ordini del commissario (p. 164)[109]; fece pubblicare alcune gride (pag. 309-317); ebbe accrescimento di uomini d'armi: ma ciò fu di poco o momentaneo profitto, chè le ottantatre terre di cui componevasi la provincia alzavano le corna divise dalla sedizione (Satira V). L'Ariosto qualche volta parlava alto e risentito (pag. 213-216); minacciava fuggirsi di notte abbandonando l'officio, e concludeva: «Ognuno è di malavoglia, e dicono mal di me, ma più di V. S. (pag. 183), che pigli li loro denari e lasci abbandonate le rôcche (pag. 229); chè almeno, poi che quella non li vuol difendere, gli dèsse licenza e li ponesse in libertà, che si potessero dare a chi fosse atto a poterli difendere e tener in pace» (pag. 234). Parole arditissime, ma giuste e degne del maggior elogio, come l'altre: «fin che starò in questo ufficio non sono per avervi amico alcuno, se non la giustizia».
Alla notizia dell'elezione al papato di Clemente VII, conoscendosi le inimicizie passate tra gli Estensi ed i Medici, parve che a tutti fosse tagliata la testa (pag. 199), chè, non credendosi abbastanza rassodato il governo del duca, era da molti preveduto un prossimo tramestìo di padroni: di qui l'ardimento a nuovi disordini da una parte, di qui il pretesto a lasciarli correre od anche favorire dall'altra, non esclusi gli ecclesiastici. A ciò poi diedero fomento anche le bande nere del famoso Giovanni de' Medici, che venute a contesa coi marchesi Malaspina di Lunigiana fecero scorrerìe e occuparono nel 1524 alcuni luoghi della ducale provincia, accrescendo seguaci alla parte italiana che rappresentavano di fronte alla parte francese sostenuta dal duca.
Dopo essere stato due anni in quell'officio, l'Ariosto dichiarò che lo muterebbe volentieri in un altro dove fosse più vicino al duca, «come sarebbe il commissariato di Romagna» (pag. 209): desiderando forse di cancellare in Lugo con dolcezza e bontà la memoria sfavorevole che vi era rimasta del padre pel fatto che abbiam riferito a pag. XVII. — L'amico Bonaventura Pistofilo, erasi offerto di procurargli la carica di ambasciatore ducale presso Clemente VII; ma il poeta dirigendogli la Satira VI ringraziando del cortese pensiero, non si mostrò allettato dall'onore nè persuaso del maggior vantaggio che gli si prometteva; chiedendo piuttosto di essere chiamato a Ferrara, ove trovavasi la Benucci, ed ove ogni cinque o sei mesi era costretto di andare a passarne uno, per non morir dalla noia in Castelnovo[110].
Sui primi d'aprile del 1525 il duca si decise a richiamare l'Ariosto presso di sè, facendolo sostituire nel commissariato da Cesare Cattaneo ferrarese. Il 26 detto mese l'Ariosto chiese di poter rimanere anche un po' di tempo nell'ufficio per esigere gli assegnamenti suoi del quartirone passato, e il giorno dopo scrisse dolendosi ch'era stata fatta una grave ingiuria al figlio Virginio che teneva presso di sè, quando a motivo della sua partenza non avrebbe potuto ottenerne la dovuta riparazione. Sulla prima domanda il duca rispose il 3 maggio che essendo