Lettere di Lodovico Ariosto. Lodovico Ariosto

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Lettere di Lodovico Ariosto - Lodovico Ariosto

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suoi quattro consiglieri di giustizia in Ferrara credettero necessario di non lasciare impunito l'ardimento di una tale citazione che scalzava di fatto l'autorità ducale, e tradotti nelle prigioni di Ferrara il notaro e i contendenti, chiesero con lettera del 3 ottobre 1520 il parere sovrano. Rispose egli a tre ore della notte seguente al suo segretario Obizzo Remo, irritandosi e lagnandosi che non avessero data un'immediata condanna di loro arbitrio, dicendo: «l'assenza nostra serviva benissimo in proposito, perchè sempre averessimo avuto la scusa accettabile quando altri si fosse querelato di cosa che fosse stata fatta in Ferrara essendo noi lontano; e massime che, come sarìa stato vero, sarìa anco stato ben credibile che non fosse passato di nostra scienza nè commissione, essendo la cosa sì presta che non aressimo potuto avere avviso di quella citazione e mandar commissione a quel tempo: sì che ci pare che tutti abbiate errato. E perchè ci domandate mo il parer nostro di quel che abbiate a fare, vi rispondemo che non sapemo che altro commettervi, se non che subito lasciate andare quello notario, così come l'avete fatto imprigionare, nol dovendo fare: e quando sarà lasciato, fatelo venire a voi e ditegli che subito che noi avemo inteso della sua cattura, avemo scritto che ci dispiace, e ch'ei sia liberato: benchè questo impiastro possa mal sanare lo error commesso. A quelli altri due (il famiglio e il balestriero), se ci è scusa alcuna legittima o colorata, fate che sian dati tre gran squassi di corda in piazza, e poi siano rimessi in un fondo di torre finchè loro sarà deliberato altro. Ma fate la nostra ambasciata alli compagni vostri, come è sopraddetto, con aggiunta d'un càncaro che vi venga a tutti quattro nel più brutto del corpo». Terminata appena la lettera gli dispiacque dover perdonare al notaro, e aggiunse l'iniquo poscritto che segue: «Prima che quel notario sia lasciato, mettete ordine col nostro collaterale, che trovi due o tre matti, fidati però, che lo vedano quando uscirà di prigione, per poterlo riconoscere, e poi l'abbino per spia quando se ne andrà; e in qualche loco ben comodo lo tirino da cavallo e lo strascinino per li capelli e lo schiaffeggino gagliardamente, pestandogli il volto e li occhi in modo ch'ei ne resti segnato e ne senta per un mese.... E potendo eseguir questo in loco da ciò, straccinogli tutti i panni d'addosso e lascinlo nudo: ma abbiasi avvertenza di far che quando lo vedranno uscir di castello, non siano visti da lui, acciochè poi egli non conoscesse alcun di loro in fatto». La lettera è di pugno del segretario Bonaventura Pistofilo, che in un brandello di carta staccata vi introdusse di nascosto queste parole dirette al Remo: «Prego la Mag. V. ed essa sarà contenta pregare per me li magnifici compagni, che mi perdonino se scrivo cosa che vi dispiaccia; chè certo l'ho scritto mal volontieri, ed anco ho scritto meno che non mi è stato commesso». — Non sappiamo come andasse a finire la scena traditrice preparata al notaro: troviam soltanto memoria che i magnifici consiglieri di giustizia restarono molto spaventati dell'ira che avevano involontariamente suscitata, e cercarono discolparsi. Il duca rispondeva: «Volemo che vi sia licito dir sempre la ragion vostra, ma noi anco volemo poter dire e scrivere a voi e alli altri quel che ci pare».

      Or questo Pistofilo ci narra nella Vita di Alfonso I, ch'ei «fu amantissimo della giustizia, la quale molto costantemente e con grandissima integritade volle che fosse ministrata in tutto il suo dominio[74]», quando a nome del suo encomiato facevasi strumento per calpestare la medesima con turpitudine d'inganni e colorati pretesti che ne salvassero qualche grossolana apparenza!

      — Nel 1508 Isabella vedova di Federico d'Aragona, spogliata del trono di Napoli, licenziata dalla Francia ov'erasi riparata, venne raminga a Ferrara con molti figli, e ottenne dal duca nato da un'Aragonese assegnamento e ricovero. Due figlie d'Isabella, già cresciute degli anni nelle strettezze della vita privata, neglette dai grandi com'è la sventura, non potendo aspirare nella posizione in cui erano cadute ad illustri nozze, si posero ad amoreggiare l'una con un mercante, l'altra con un Pugliese nominato Ferrante. Il duca venne presto a saperlo, e si lagnò di questo grande disordine col loro maggior fratello don Ferrante che era in Ispagna, scrivendogli il 9 maggio 1525 e proponendo gravissimi castighi, unicamente per evitare il pericolo di qualche scandalo vergognoso. Ritardando la risposta, spediva il 18 luglio altra lettera in duplicato esemplare, confessando che aveva più d'una volta pensato di far strangolare i due giovani innamorati e far chiuder le donne in separati conventi, ma che aveva con forzata pazienza voluto aspettare gli ordini del fratello da eseguirsi contro tutti, de' quali sarebbe stato fedele e severo esecutore. — Speriamo che don Ferrante si sarà contentato che i due giovani fossero allontanati da Ferrara, e che avrà riconosciute le sorelle degne di compatimento. — Più tardi il duca si mostrò molto sollecito in procurare che una di queste Aragonesi per nome Giulia facesse un matrimonio che secondava le sue viste col marchese di Monferrato. Ma l'infelice principessa pochi giorni dopo le nozze celebrate in Ferrara videsi spento il marito di veleno; poichè essendo egli l'ultimo dell'illustre famiglia Paleologa e mancando senza figli, il Monferrato doveva passare sotto il dominio del marchese di Mantova cognato di Alfonso I. L'ex regina Isabella, che costretta a vivere di una sprezzante elemosina era divenuta pia sollevando il cuore all'altezza del sacrificio, provò tanto orrore di questo delitto di avvelenamento che la condusse fra non molto alla tomba. Prima di morire aveva raccomandato con lettere al figlio suo primogenito le disgraziate sorelle, ed egli che allora trovavasi governatore in Granata le chiamò presso di sè, liberando il duca dal pensiero di cercare alle medesime altre ragguardevoli nozze.

      Non aggiungeremo nuovi fatti, ritenendo gli esposti anche di troppo valevoli a farci conoscere il carattere del duca, che certamente non fu il migliore di tutti i suoi fratelli, senza parlare di don Sigismondo morto nel 1524, «perchè essendo stroppiato dal mal francese, poco potè adoperarsi in mostrar suo valore»[75].

      Alla morte di Giulio II il duca erasi affrettato al tempo della sede vacante di ricuperare le sue terre di Romagna e la Garfagnana, ma dovette presto desistere udendo l'elezione di Leone X, per non compromettersi col novello papa, «che essendo cardinale avea così ben dissimulato che era creduto mezzo santo; ma riuscì poi tutto il contrario. Il detto duca andò a Roma alla sua coronazione e tornossene a Ferrara assoluto dal monitorio di papa Giulio, con un'amplissima bolla di papa Leone che gli promise molto ed osservò poco»[76]. — Trattava il duca coll'offerta di qualche somma di riaver Modena dall'imperatore Massimiliano, cui era stata consegnata, «il quale per essere nello spendere troppo profluso avrìa venduto poco manco ch'io non dico i denti per aver denari». Il papa sotto colore di agevolare il negozio accettò Modena in suo nome, sborsò quarantamila ducati all'imperatore, e fece formale promessa di restituirla al duca entro certo tempo a fronte del rimborso della somma pagata: «Non scrivo il termine prefisso a redimerla perchè il predetto duca mio Signore mai non lo potè sapere: chè se ben fu detto che era X anni, la copia dello strumento celebrato sopra ciò avea vacuo il luogo nel quale doveva essere dichiarato esso tempo!»[77]. Anche «il card. Ippolito stando in Roma, ottenne dal papa un breve per la restituzione di Reggio fra cinque mesi, con che il duca cessasse di fare il sale in Comacchio. Il duca mantenne la promessa; ma il papa in mille modi sempre l'ingannò»[78], fino a fargli depositare nelle mani dell'imperatore i quarantamila ducati del prezzo di Modena; senza poter però avere nè l'una, nè l'altra città. Nel 1518 il duca andò a Parigi a prestar omaggio al re Francesco nell'alleanza che questi fece col re d'Inghilterra e così implorare più validi uffici all'adempimento delle promesse del papa, ritornando a Ferrara il 20 febbr. 1519. Era in Parigi quando Raffaello Sanzio vi spedì il ritratto di Giovanna d'Aragona uscito dallo studio di lui; e il duca ne provò tale soddisfazione, che in data 29 dicembre 1518 ordinava al suo segretario Obizzo Remo: «Scrivete a Roma a Monsig. d'Adria che faccia sollecitare la mia pittura che fa Raffael da Urbino[79], e che o per il Paulucci o per altri faccia parlare ad esso Raffael, e dirgli che noi desideriamo d'aver il cartone di quella pittura che esso ha mandato qua al Rev. Legato, su la quale è ritratta la signora viceregina di Napoli, e che avendolo ci farà piacere gratissimo a donarcelo: circa che usi il prefato Mons. quella maniera e mezzo che pare a S. S.ria alla quale reputiamo che basti far noto il nostro appetito, conoscendo la prudenza e desterità di Sua Sig.».

      Il 24 giugno 1519 in età d'anni 41 morì per conseguenza di un aborto Lucrezia Borgia[80]. Narrano gli storici di casa d'Este, ch'ella «lasciate le mondane pompe.... impiegava la mattina in orazioni» e che venendo a marito e trovando in Ferrara che «le gentildonne e cittadine usavano abiti ne' quali mostravano le carni nude del petto e delle spalle, così essa signora

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