La Tragedia Dei Trastulli. Guido Pagliarino

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La Tragedia Dei Trastulli - Guido Pagliarino

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di là da venire, i suoi famigliari non avevano potuto provare a rintracciarlo chiamandolo. Già verso le 22 la moglie e i due figli avevano denunciato la sparizione in Questura: la legge italiana del tempo, contrariamente a quelle di altri Stati, non riteneva necessario che, prima di poter procedere alla segnalazione della sparizione d’un famigliare o parente a un corpo di Polizia, fosse trascorso un certo numero di ore o addirittura di giorni, infatti considerava che maggiore sarebbe stata la possibilità di trovare la persona se ci si fosse mossi il prima possibile.

      Il funzionario di turno preposto a raccogliere la denuncia, un certo brigadiere Pitrini, dopo aver fatto accomodare il trio davanti alla propria scrivania, aveva chiesto: “A casa c’è qualcuno?”

      Aveva risposto Arturo: “Sì, mia moglie con le nostre bambine.”

      “Suo padre potrebbe esser tornato mentre loro venivano qui. Per prima cosa è bene controllare. Numero di telefono?”

      Avutolo, l’aveva composto sul disco combinatore dell’apparecchio che aveva sullo scrittoio, passando subito la cornetta alla signora madre.

      Aveva risposto Clodette, deludendola: “No, purtroppo non c’è. Nemmeno ha telefonato.”

      La suocera aveva sospirato e, senza congedarsi dalla nuora, aveva reso il ricevitore al brigadiere.

      Il funzionario aveva riagganciato, di seguito aveva ordinato a un agente del suo ufficio, un certo Bianchini, di telefonare a tutti i pronto soccorso torinesi chiedendo se un Aristide Trastulli vi fosse stato ricoverato.

      L’agente aveva eseguito. Tempo dopo, avrebbe comunicato al brigadiere che non risultava nessuno con quelle generalità.

      Nel frattempo il brigadiere aveva chiesto ai denunzianti se avessero portato foto dell’uomo.

      “Sì, ci abbiamo pensato: due fotografie”, gli era venuto dalla signora Iride. Aveva cavato dalla propria borsa un’istantanea a colori del marito, a figura intera, e una sua fototessera in bianco e nero, sorella di quella applicata alla sua carta d’identità. Le aveva allungate al brigadiere.

      Il Pitrini le aveva posate sul proprio scrittoio e aveva ordinato all’agente dattilografo che gli sedeva poco distante, pronto a battere i tasti della propria macchina: “Queste te le prendi dopo e le alleghi alla pratica. Cominciamo a scrivere.” Aveva chiesto ai denuncianti: “Quando hanno visto per l’ultima volta lo scomparso?”

      La madre: “Poco dopo le 19, subito dopo la chiusura del nostro negozio…”

      “...situato?”

      “La ditta Trastulli è in via Garibaldi, quasi in piazza Statuto, una trentina di metri prima.”

      “Ah, sì, un negozio con molte vetrine, l’ho presente.”

      “Sì. Dicevo che mio marito è uscito subito dopo la chiusura, passando dal retro assieme ai commessi, mentre noi, come ogni sera, ci siamo soffermati per chiudere il conto cassa e per controllare che tutto fosse a posto, prima d’andarcene. La maggior parte delle volte andavamo via con lui in auto, a conti fatti, ma stasera ci ha detto che, per farsi venir appetito, voleva far quattro passi lungo il suo solito breve percorso.”

      “Me lo delinei, dovremo cominciare a cercarlo in quelle vie.”

      “Uscendo da noi in via Garibaldi, svolta a sinistra in corso Valdocco, poi svolta a destra in via del Carmine, va avanti fin a piazza Savoia, svolta a destra in via della Consolata, quindi, sempre dritto, imbocca corso Siccardi, infine gira a destra in via Cernaia e arriva a casa nostra, che è quasi all’altezza di corso Palestro.”

      “Mi ha detto che la passeggiata non è un fatto del tutto eccezionale.”

      “Esattamente, brigadiere, una e talvolta due volte alla settimana capita. Ci ha detto uscendo che ci saremmo visti a casa per cena, lo diceva tutte le volte, per abitudine. Abitiamo tutti assieme in due appartamenti comunicanti, noi, i figli, la nuora e le nipotine. Quando siamo rientrati, lui non era arrivato.”

      “A che ora?”

      “Erano le 20 e qualcosa, diciamo le 20 e 10. Era inusuale che non ci fosse ancora, ma non stranissimo, era già successo due volte in passato, in entrambe aveva incontrato un caro amico che abita in via del Carmine, il generale dei Carabinieri Amedeo Ronzi di Valfenera, ed erano andati a sedersi a un tavolino d’un caffè, non so quale, per prendersi un aperitivo assieme e fare due chiacchiere: nessuna delle due volte aveva pensato di telefonarci dal caffè, lui è fatto così, brigadiere. Abbiamo lasciato passare un’oretta. Ormai, eravamo molto preoccupati, è ovvio. Così abbiamo pensato di comunicarvi senz’altro la sparizione, ma prima abbiamo ancor voluto telefonare ai nostro commessi per sapere se avessero notato, uscendo con lui, in che direzione Aristide avesse preso a camminare, nel caso stavolta avesse cambiato percorso: poteva esser utile alle vostre ricerche.”

      “Avete fatto bene, Dunque?”

      “Due di loro non erano in casa….”

      “...quanti sono i commessi?”

      “Quattro.”

      “Continui, signora.”

      “Il telefono del primo ha squillato...”

      “...nome e indirizzo?”

      “Mario, Mario Rollini, abita in corso Francia, vive solo, almeno secondo il foglio di famiglia che i dipendenti ci rilasciano per gli eventuali assegni familiari. Non so a che numero abiti, in ditta l’abbiamo, ma a memoria non ricordo, so che è quasi in piazza Bernini.”

      “Va bene, non importa, lo troviamo noi. Quindi?”

      “Dicevo che il suo telefono ha squillato a vuoto.”

      “Gli altri?”

      “Ho chiamato per secondo Cesare, Cesare Chiodi di preciso. Abita in via Don Bosco con la moglie. C’era, ma mi ha detto di non aver fatto caso a quale direzione avesse preso mio marito. Il terzo commesso, Amilcare Nobis, invece lo sapeva, l’aveva visto dirigersi proprio verso corso Valdocco e io avevo capito che aveva preso la solita strada. Nemmeno Umberto c’era, intendo Umberto Ronzi di Valfenera che è figlio del generale amico di mio marito: Marta, la sua mamma, era a casa da sola e m’ha riferito che il marito sarebbe rientrato tardi, perché aveva dovuto trattenersi al suo comando di brigata e, quanto al figlio, l’aveva chiamata da un bar informandola che non sarebbe rincasato subito.”

      “Motivo?”

      “Perché avrebbe mangiato in pizzeria con un compagno dell’ultimo anno delle superiori incontrato per strada, uno ch’era stato suo amico e s’era trasferito a Milano dopo il diploma: era solo di passaggio a Torino e avevano deciso, sul momento, di fare una breve rimpatriata mangiandosi assieme la pizza.”

      “Quel vostro Umberto ha un diploma di maturità, a quanto ho capito.”

      “Sì, è ragioniere, l’assumemmo tre anni fa per un favore al padre.”

      “Come contabile?”

      “No, come commesso. La contabilità la tiene mio figlio” – aveva indicato Clemente –: “Umberto ha il diploma ma preso col minimo dei voti a ventidue anni, dopo diverse bocciature, per cui non solo non aveva poi superato l’esame per l’ammissione all’Accademia Allievi Ufficiali

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