Una Maestra D'Asilo Per Il Re. Shanae Johnson

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Una Maestra D'Asilo Per Il Re - Shanae Johnson

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marciapiede, ancora mano nella mano. Troppo presto, la ragazza lasciò la presa. Poi prontamente gli diede una pacca sulle gambe dei pantaloni, pericolosamente vicino ai gioielli della corona.

      «Oh, no» gli disse. «Ho rovinato il suo vestito.»

      Leo abbassò lo sguardo per vedere che c’erano delle macchie sul lato della giacca e su una delle gambe dei pantaloni. Una donna non lo toccava da tanto tempo. Anche se lo stava spazzolando con un po’ troppa intensità.

      «Ero di fretta» gli disse, concentrandosi sui granelli di sporco e sudiciume sul tessuto dei suoi vestiti. «Stavo cercando di ordinare qualcosa da mangiare sul telefono. Sono in pausa pranzo e non ho molto tempo. Ecco perché stavo guardando il cellulare. E ora sto parlando a vanvera. Quella è la sua auto?»

      Leo aveva problemi a tenere il passo. Guardò la donna, poi il cellulare che lei ancora stringeva in mano, di nuovo lei e poi la sua macchina. «Sì.»

      «Lo sa che non può parcheggiare lì? Le faranno una multa.»

      Lui scosse la testa. «Immunità diplomatica.»

      «Oh. Oh, conosco quella bandiera. È la bandiera di Cordoba.»

      L’arancione, il rosso e il blu rappresentavano i diversi paesi da cui proveniva la maggior parte della gente di Cordoba. Con la bandiera del suo paese esposta in modo ben visibile e orgoglioso sull’auto, Leo disse addio al suo anonimato.

      «Lavora per il principe?» gli chiese.

      Senza pensare, la verità gli uscì di bocca. «No, sono il re.»

      «Oh, lavora per il re? Che cosa eccitante!»

      Chiaramente, lei lo aveva frainteso. Doveva essere di nuovo l’accento. Ma Leo decise di approfittarne. Un piccolo brivido lo percorse all’idea che il suo anonimato fosse stato ripristinato. «Non è per niente eccitante. Il re si occupa degli affari di Stato. Agricoltura, tasse, immobili.»

      «Ma anche lei vive nel castello? Mi piacerebbe saperne di più. Posso offrirle una tazza di caffè e una fetta di torta come ringraziamento per il salvataggio?»

      Una tazza di caffè da una bellissima sconosciuta? «Certo.»

      Mentre si avvicinavano alla porta del negozio di torte, Leo vide che Giles lo osservava accigliato. Fece segno all’uomo di tenere la bocca chiusa. Giles lo fissò, e Leo poté sentire lo sbuffo dall’altra parte del locale. Ma, per una volta, l’uomo fece come gli era stato ordinato e tenne la bocca chiusa. Anche se tirata in una linea di chiara disapprovazione.

      «Io mi chiamo Esme, a proposito.»

      «Io Leo.»

      Capitolo Quattro

      Nonostante tutte le favole, i romanzi rosa e i film di Hallmark che Esme divorava, non si era mai considerata il tipo da damigella in pericolo. Ma, ragazzi, aveva funzionato benissimo! Esme era caduta tra le braccia di un vero eroe.

      Tecnicamente, si era schiantata contro di lui mentre faceva la cosa più innocua e stereotipata che una millennial americana potesse fare. Ma chi se ne fregava, visto che aveva dato buoni risultati, e lei sarebbe sopravvissuta per raccontare quella storia. E che storia, si stava accingendo a essere!

      Leo le tese il braccio in un perfetto angolo retto, da galantuomo. Proprio come nei film d’epoca della BBC che lei da bambina guardava alla televisione pubblica. Fu presa dal panico per un secondo, incerta sul da farsi.

      Doveva infilargli la mano sotto il gomito e stringere le dita nell’incavo? O appoggiargli la mano sull’avambraccio, posando leggermente le dita? Che cosa aveva fatto l’attrice che interpretava Elizabeth con Mr. Darcy in Orgoglio e Pregiudizio? Non nel film di due ore con Keira Knightley trasmesso fino alla nausea via cavo. In quello deliziosamente lungo, diviso in episodi, che faceva partire nei fine settimana durante le raccolte fondi.

      Alla fine, decise che voleva un po’ di azione. E così Esme gli mise semplicemente la mano tra le costole e il bicipite. Le sue nocche sfiorarono la giacca elegante che aveva rovinato con la sua epica distrazione. Quel capo era più fine del suo vestito più costoso. Non che quello rivelasse molto di lei, dal momento che tendeva a fare acquisti nei negozi dell’usato e non sulla Fifth Avenue. Ma ogni pensiero la abbandonò quando le sue dita incontrarono i muscoli di lui.

      E... oh, cavolo... quelli sì che erano muscoli!

      Quel tizio che lavorava a palazzo non era uno sciattone. C’erano più colline sul suo braccio che valli nel Grand Canyon. Si chiese che cosa facesse per il re. Doveva far parte della security, con quel fisico, la faccia seria e le doti da eroe.

      Forse era Capitano della Guardia Reale? Possibile fosse un cavaliere? Nei libri di fiabe, gli uomini che proteggevano i re erano sempre cavalieri. Ma lui aveva detto di non essere un cavaliere. Tuttavia, per lei avrebbe sempre indossato le vesti di un cavaliere dall’armatura scintillante.

      E, solo per dimostrare la cosa, le tenne la porta e le permise di precederlo. Chinò anche leggermente la testa mentre le permetteva di superarlo. Il cuore di Esme fece un sussulto e una giravolta e alla fine le si schiantò contro le costole.

      Oh, cavolo, era in guai seri.

      Al bancone c’era un uomo che li guardava accigliato. Aveva la stessa abbronzatura dorata e lo stesso aspetto bello e cupo di Leo. Era vestito come lui, ma era chiaramente più vecchio. Probabilmente solo di pochi anni. Non c’erano rughe sul suo viso, ma i suoi occhi erano velati dallo sfinimento.

      «Ho deciso di mangiare qui la mia torta, Giles» disse Leo. «So che abbiamo un programma da seguire e che dobbiamo arrivare all’ONU per il discorso del re. Non ci metterò troppo.»

      Quell'uomo, Giles guardò Leo da sopra la testa di Esme. Poi abbassò lo sguardo su di lei. Se possibile, il suo cipiglio si fece ancora più severo, come se avesse fiutato qualcosa da una fogna. Ma inclinò la testa. Con un’altra occhiata a Esme, lasciò il contenitore di torta da asporto sul bancone e si diresse verso la porta.

      «Mi dispiace.» Leo si sedette accanto a lei al bancone. «Giles odia essere in ritardo.»

      «Non voglio impedirti di fare il tuo lavoro.» Era una bugia. Sì, voleva tenerlo con sé.

      «Abbiamo tutto il tempo per arrivarci. Giles pensa che arrivare in tempo significhi essere in ritardo.»

      «Anche io non ho molto tempo. Posso fare solo una breve pausa pranzo. Ancora più breve, ora, visto che ho sfiorato la morte.»

      «Che cosa?»

      Entrambi si voltarono per guardare la donna dietro il bancone. Aveva sbattuto le mani sul bancone insieme a quell’esclamazione. Il rumore era stato solo un tonfo sordo poiché le sue mani erano coperte da un paio di guanti da forno.

      Esme alzò le mani per calmarla. «Era solo un modo di dire, Jan.»

      «Spesso sei incline al drammatico, tesoro, ma c’è sempre un minimo di verità.» Jan conosceva Esme fin troppo bene. Capitava, essendo migliori amiche.

      «Mentre ti stavo scrivendo, non guardavo dove stavo andando e sono finita nel traffico.»

      Gli occhi di Jan si spalancarono

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