Mater dolorosa. Gerolamo Rovetta

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Mater dolorosa - Gerolamo Rovetta

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delle tue idee progressiste potrà anzi farle del bene.

      «A proposito della repubblica: il presidente lo prendete bell’e fatto, o lo ordinate apposta? In ogni modo non dimenticarti di raccomandargli la mia testa: potrà sempre riconoscerla dalla coda.

      «Attendo una risposta a volta di corriere.

      «Fa quello che vuoi. Ti lascio libero della tua volontà: ma, se rifiuti, bada che ti diseredo.

      «Ascolta dunque le mie preghiere, unitamente a quelle dei tuoi creditori, e prendi subito il diretto per Firenze. Tua zia ti prepara una benedizione del Santo Padre.

      «Ti stringo la sinistra e mi dichiaro colla destra

      «L’affezionato zio

      «Pier Luigi da Castiglione».

      – Ma dunque? Voi pure venite a Firenze? – esclamò Maria; e ne’ suoi grandi occhi, invece delle lacrime, brillava adesso la gioia.

      – Certamente!… Volete che mi lasci diseredare? Ho già risolto e parto fra otto giorni.

      – Oh bravo!… Nel caso contrario, sapete, mi sarei unita io pure a vostro zio…

      – E ai miei creditori.

      Maria rise del motto, e fra le due buone creature cominciò quella corrente di allegro umore, schietto e sereno, che di tanto in tanto fa così bene all’anima e alla salute. Giorgio mise in canzonatura Prospero Anatolio, il quale sottoponeva il suo progetto alla volontà sovrana della consorte e finiva poi col fissare la giornata e l’ora della partenza. E Maria rispose citando il conte Pier Luigi, che lasciava il nipote libero della propria volontà, minacciando per altro di diseredarlo se non avesse fatto a modo suo. In conclusione, entrambi convennero che tanto Prospero quanto Pier Luigi avevano i loro difetti, le loro pecche; ma erano pure le due eccellenti persone! Maria andava persuadendosi che suo marito non era dalla parte del torto e che, chiamandola presso di sè, le dava veramente una prova d’affetto. Conveniva che, a Borghignano, divertimenti nè distrazioni non ce n’erano affatto, mentre a Firenze avrebbe potuto uscire un po’ da quella vita monotona e sollevare lo spirito, specialmente frequentando i teatri; ed anche per l’educazione di Lalla il nuovo disegno di Prospero Anatolio veniva assai opportunamente. Vedendo persone nuove e vivendoci in mezzo, il demonietto avrebbe perduto un po’ di quella sua selvatichezza indomabile, e con suo padre vicino avrebbe fatto meno capricci.

      Giorgio approvava tutte le considerazioni di Maria, si lasciava burlare a proposito delle sue aspirazioni platonicamente repubblicane, e così, fra una chiacchiera e uno scherzo, quella sera, invece di andarsene alle undici, come era solito, lasciò il palazzo d’Eleda quando la mezzanotte era già suonata.

      Un’ora dopo, Maria si addormentava beata, tranquilla, sorridendo alla nuova felicità che l’aspettava a Firenze, senza aver notato il cambiamento del suo umore, senza averne avvertito il perchè, senza domandarsi come mai prima le aveva data tanta pena la lettera di suo marito ed ora invece le procurava tanto piacere.

      Il conte Della Valle, un’ora dopo, era ancora al club, e quando la mattina scrisse allo zio accettando di andare a Firenze, non ricordava nemmeno che a Firenze ci sarebbe andata pure la duchessa d’Eleda.

      V

      Maria comparì la prima volta in mezzo al bel mondo fiorentino, nel gran ballo della principessa Balbi della Bicocca. Già essa vi era stata annunziata, e la precedeva quel vociare inquieto, quei mille pettegolezzi coi quali si fabbricano le biografie improvvisate di tutti coloro che attirano la curiosità della gente. Gli uomini ne parlavano con entusiasmo, le donne con una certa diffidenza; esse temevano una rivale.

      La bellezza della duchessa d’Eleda aveva raggiunto allora quasi la perfezione, e quel poco che le mancava per esser perfetta, ne accresceva la grazia. Era una bellezza che parlava ai sensi e al cuore; grande, bionda, pallida, l’eterno femminino di Goethe aveva in lei la sua espressione più viva, e la formosità giovanile, i suoi fascini più attraenti. Il poeta Aleardi, allora di moda, la paragonava a una Madonna pensata dal Beato Angelico, e dipinta da Rubens.

      Quando non c’è un amante di mezzo che faccia da diafragma, i raggi lucenti della moglie cadono diritto a illuminare il marito: e Prospero Anatolio, come aveva già preveduto, ebbe in suo pro tutta la benevolenza che sapeva cattivarsi la moglie. Cominciavano a dimenticarlo, e la moglie lo ricollocò sul candelliere.

      La celebrità(), come le donne e la fortuna, si abbandona a chi sa coglierla in buon punto; e una volta raggiunta nessuno o ben pochi ripensano agli espedienti adoperati all’intento. Prospero Anatolio poi, dominato da una gran vanità, non era uomo da fermarsi ad analizzare il successo. Quando lo applaudivano alla Camera, egli dimenticava che il discorso era stato riveduto da un suo collega, costretto, per la disciplina di parte, a tenersi nell’ombra; quando faceva ridere gli amici con un frizzo, dimenticava il Figaro o il Fanfulla, dove lo aveva letto. Adesso si sentiva accarezzato, cercato, adulato, e non pensava a sua moglie, alla forza prima di tutto quell’incenso; quella forza ch’egli per altro, a suo tempo, non avea trascurato di adoperare.

      Gli uomini di tutti i partiti, deputati, ministri, senatori, banchieri, artisti alla moda, diplomatici a spasso, generali e ufficialetti, tutto il sesso forte, insomma, si affaccendava attorno al duca e gli faceva corona: e nemmeno il sesso debole gli era avaro di sorrisi.

      Maria non aveva amanti; per combatterla e vincerla bisognava dunque sedurre il marito.

      E infatti fra le altre, e più delle altre, la baronessa Renata de Haute-Cour, che da vari mesi faceva delirare invano il povero Anatolio, aveva cominciato, dopo la venuta di Maria a Firenze, a mostrarsi con lui di una amabilità molto arrendevole.

      La de Haute-Cour era la moglie del ministro di Francia: una donnina che sembrava uscita da un capitolo di Feuillet, piena di grazia e di nervi; che rideva, parlava, gestiva continuamente, e che formava con Maria il più vivo contrasto. La duchessa d’Eleda aveva la maestà, i modi, il sentire di una gran dama; Renata, invece, la storditaggine briosa di uno sbarazzino.

      Forse appunto per un tale contrasto, o forse per il rumore, lo scandalo, l’invidia, i desideri, che la de Haute-Cour avea sollevati intorno a sè, Prospero Anatolio da due mesi ne era perdutamente invaghito, e balbettava con lei, balbettava in modo straordinario. Renata non si può dire che rifiutasse il suo omaggio, questo no; ma le piaceva di farlo giocolare, come il micino che corre, salta, scatta, si contorce, fugge e ritorna affaticandoci per ghermire il gomitolo e, quando è lì lì per afferrarlo, uno strappo improvviso glielo porta lontano.

      Ma invece al ballo della Principessa della Bicocca, Prospero Anatolio raggiunse il colmo della felicità. Renata era tutta per lui solo: aveva aperto al duca una partita a due colonne sul libricciuolo dei balli, e licenziava con poche parole gli importuni che tratto tratto venivano ad interrompere i loro discorsi.

      Gongolante, orgoglioso, egli non avvertiva però che i rivali da lui messi in fuga correvano ad ingrossare le file già formidabili degli adoratori di sua moglie.

      Durante le quadriglie, la coppia del duca e della baronessa Renata era la più disattenta di tutte, e fece nascere confusioni disastrose nella grande chaîne e nei comandi à gauche e à droite. Fra un ballo e l’altro era sempre il duca il cavaliere di lei, l’angelo custode del suo ventaglio, il segretario dispotico del suo carnet. Il duca la faceva bere, il duca la faceva passeggiare, il duca provvedeva agli strappi del suo vestito, conducendola dove le cameriere riparavano ai guasti avvenuti nel calore delle danze.

      – Il vostro è un capriccio, – gli diceva Renata appoggiandosi mollemente al braccio di Prospero.

      – No! No!

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