I Vicere. Federico De Roberto
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Tutti s’alzarono al sopravvenire di donna Isabella Fersa con suo marito don Mario e con Padre Gerbini: il Benedettino reggeva galantemente sul braccio un velo della dama. Questa baciò tutte le Uzeda, fuorché la principessa, la quale, schivandosi, presentò: «Mia cognata Matilde…»
Donna Isabella strinse forte la mano alla contessa e le si mise a sedere a fianco, sospirando:
«Che grande disgrazia! Ma bisogna fare la volontà di Dio!… Siete stati a Firenze?… Anche noi ci fummo l’anno scorso; ma voialtri allora eravate a Milazzo… Una sola bambina finora?… Il conte aspetta un maschietto, naturalmente. Felice voi che avete una figlia: v’invidio, contessa, sapete…»
Padre Gerbini faceva intanto il giro delle signore, discorrendo a lungo con le più giovani e belle, dicendo loro cose galanti e proibite. Egli prendeva le morbide e bianche mani femminili, le teneva un poco fra le sue egualmente bianche e inanellate, poi le baciava. Vedendo rientrare il principe col fratello, lasciò le dame per condurre Raimondo dinanzi alla Fersa.
«Il conte di Lumera… donn’Isabella Fersa, la più bella dama del regno…»
«Non gli creda, dice a tutte così…» esclamò ella sorridendo. «Sono dolente di conoscerla,» riprese, con altro tono di voce e stringendogli la mano, «in questa triste circostanza…» Sospirò un poco, poi ricominciò: «Giusto, la contessa mi diceva che arrivate da Firenze…»
«Direttamente. Ci siamo fermati appena a Messina.»
«Per lasciar la bambina a vostro suocero. Avete fatto bene! Com’è questa Milazzo?»
«Non me ne parli.»
Per fortuna, egli ci stava il meno che poteva, sempre attirato a Firenze, dove aveva tante amicizie. Come egli citava i grandi nomi di Toscana, donna Isabella chinava ripetutamente il capo in atto affermativo: «I Morsini, sicuro… i Realmonte…»
La contessa volgeva supplici sguardi al marito, quasi per dirgli: «Portami via…» ma Raimondo non cessava di parlare del suo tema favorito. Fersa gli s’avvicinò un momento per stringergli la mano ed esprimergli il proprio rammarico.
«Tuo zio il duca arriva domani?»
«Così m’ha detto Giacomo.»
«E del testamento?»
«Non si sa nulla.»
Tra i discorsi di politica, di moda, di viaggi, quella domanda curiosa era sussurrata qua e là, e otteneva sempre la stessa risposta. Il presidente della Gran Corte, testimonio della consegna del testamento segreto fatta dalla principessa al notaio l’anno innanzi, non sapeva nulla intorno al contenuto della carta di cui aveva firmato la busta, e i figli della morta erano al buio peggio degli estranei. Forse, se Raimondo fosse venuto a tempo, quando sua madre lo aveva insistentemente chiamato, egli avrebbe saputo qualcosa; ma il conte, divertendosi a Firenze, aveva fatto orecchio da mercante, quasi non si trattasse dei suoi stessi interessi. Possibile, allora, che la principessa non si fosse confidata proprio a nessuno? a qualcuno dei cognati? a un uomo d’affari, almeno? Di botto don Blasco, lasciando in pace Cavour e la Russia:
«E allora, che sugo ci sarebbe stato?» esclamò. «Così fanno tutti coloro che ragionano, eh?… Ma in questa casa la logica era un’altra!… Nessuno doveva saper niente! tutto si doveva fare a loro capriccio; sempre chiusi, sempre misteriosi, come se fabbricassero moneta falsa!»
Il presidente scrollava il capo con bonomia, per acquietare il monaco focoso; ma questi proseguiva:
«Volete sapere che dirà il testamento? Domandatelo al confessore! Sissignori: al confessore!… Voi al confessore di che parlate? Dei peccati, eh? delle cose di coscienza?… Degli affari, naturalmente, incaricate gli avvocati, i notai, i parenti, sì o no?… Qui invece il confessore scriveva il testamento: forse il notaio impartiva l’assoluzione!»
Alcuni sorridevano a quelle sparate, e le supposizioni avevano libero corso. Il presidente era sicuro, checché si dicesse in contrario, che l’erede sarebbe stato il principe, con un forte legato al conte; e il generale confermava: «Sicuramente, l’erede del nome!» ma il barone Grazzeri scrollava il capo: «Se non andarono mai d’accordo?» Don Mario Fersa, infatti, piano al cavaliere Carvano, manifestava la sua opinione, secondo la quale l’erede sarebbe stato Raimondo. Forse il contegno di lui durante la malattia della madre, il costante rifiuto di venire a vederla, potevano avergli un poco nociuto; ma la predilezione dimostrata dalla principessa a quel figliuolo era stata troppo grande perché in un momento ne andassero dispersi gli effetti. «Non dimentichiamo,» rammentava il cavaliere Pezzino, «che la felice memoria non volle mai chiedere l’istituzione del maiorasco appunto per esser libera di fare a modo suo.» Dunque si sarebbe proprio visto questa enormità? Il capo della casa diseredato? erede Raimondo che non aveva figli maschi? diseredato il principe che aveva già nel piccolo Consalvo il successore?… I lavapiatti, come familiari della defunta, erano richiesti della loro opinione, ma essi che ne sapevano meno di tutti rispondevano evasivamente, per non far torto a nessuno. «E gli altri figli? Ferdinando? Le donne?…» La curiosità, benché contenuta ed espressa sotto voce, era vivissima. Il confessore, questo famoso Padre Camillo, non aveva parlato? «Non c’è, è a Roma da parecchi mesi; e anche ci fosse, non parlerebbe: è volpe fina…» E tutti gli sguardi si volgevano naturalmente a Giacomo ed a Raimondo. Questi chiacchierava ancora con donna Isabella, e pareva che il testamento materno fosse l’ultimo dei suoi pensieri, anzi che egli ignorasse perfino la morte della madre; il principe invece aveva un aspetto più grave del consueto, quale conveniva alla tristezza di quei giorni; egli riceveva con espressioni di gratitudine le reiterate condoglianze delle persone che si congedavano. Alcune di queste però non riuscivano a trovarlo, andavano via senza poterlo salutare; e i familiari si guardavano con la coda dell’occhio, comprendendo. Egli aveva una folle paura della iettatura, attribuiva a una gran quantità d’individui il funesto potere; stava sulle spine in loro presenza, evitava di salutarli, con le mani in tasca. Ma il presidente della Gran Corte, appena alzatosi, se lo vide vicino:
«Se lo zio arriverà domani, presidente, fisseremo per posdomani la lettura?»
«Quando credete, principe mio! Sono agli ordini vostri!…»
«Veramente…» aggiunse, abbassando la voce, «io non avrei tanta fretta… anzi mi parrebbe una sconvenienza verso la memoria di nostra madre… Ma sapete come succede quando si è in molti… quando bisogna dar conto a tanti…» E poiché suo fratello il Priore se ne andava anche lui, insieme col Vescovo, li avvertì entrambi, essendo Monsignore un altro dei testimoni.
«Fate, fate voialtri…» disse il Priore, disinteressato. «Che bisogno avete di me?»
Ma Giacomo protestò:
«No, no; che vuol dire! Bisogna fare le cose in regola, per soddisfazione di tutti…»
Siccome annottava, molti andavano via. Padre Gerbini, quantunque il Priore avesse dato l’esempio, restò ancora un poco a cicalare con le signore; poi se n’andò anche lui. Restò, sbraitando contro i rivoluzionari e la cognata morta, don Blasco, che rientrava sempre l’ultimo al convento.
Adesso i servi accendevano le lampade; e con le finestre chiuse, il calore diveniva intollerabile nella sala. La contessa si sentiva mancare e non vedeva più il marito che aveva seguito donna Isabella nella Sala Rossa a discorrere di Parigi. Ancora una volta aveva accanto lo zio Eugenio e don Cono, i quali continuavano a sviscerare le antiche cronache cittadine e citavano con linguaggio fiorito roba latina.
«I funeri di Carlo V furono celebrati a presenza del Viceré