I Vicere. Federico De Roberto

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I Vicere - Federico De Roberto

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dinanzi alla folla curiosa che gremiva la terrazza e le scalinate, avevano inchiodato sulla porta maggiore il drappellone di velluto nero con frange d’argento, sul quale leggevasi a caratteri d’oro:

      PER L’ANIMA

      DI

      DONNA TERESA UZEDA E RISÀ

      PRINCIPESSA DI FRANCALANZA

      ESEQUIE

      Verso sedici ore, don Carlo Canalà, col naso in aria, sotto la porta spiegava al principe di Roccasciano, tra le gomitate di quelli che entravano continuamente:

      «Veda: all’esterno non giudicai conveniente… dilungarmi del soverchio.. Massima semplicità: per l’anima… esequie… Penso che nella sua concisione… per avventura…»

      Ma gli urti, le pestate di piedi, le esclamazioni dei curiosi non gli consentivano di filare il discorso; la gente sbucava a torrenti da tutte le parti, sospingevasi in chiesa, calpestava i mendicanti venuti a mettersi accosto alle porte ed ai cancelli per far baiocchi.

      «Sol esso il nome… onde i concetti, per avventura…»

      Alla fine, don Cono si decise anch’egli ad entrare; ma, separato dal compagno, fu travolto, come un chicco di caffè nel macinino, dal turbine umano che per il troppo angusto passaggio s’ingolfava nella chiesa.

      Essa era buia, pei veli delle finestre, pei manti neri che rivestivano le pareti e pendevano dalle arcate delle cappelle e si stendevano lungo il cornicione. Sopra una piattaforma alta sei o sette gradini dal pavimento e girata da una triplice fila di ceri, sorgeva il catafalco: una piramide tronca le cui quattro facce, tappezzate d’ellera e di mortella, portavano nel mezzo, disegnati a fiori freschi, quattro grandi scudi della casa di Francalanza. Al sommo della piramide, due angeli d’argento inginocchiati da una sola gamba aspettavano di reggere il feretro. Ad ogni angolo inferiore del catafalco, su tripodi d’argento, erano confitte quattro torce grosse quanto le stanghe, con uno scudo di cartone legato a mezz’asta; sei valletti con le livree del secolo XVIII, rosse, nere e dorate, impalati come statue, con le facce rase di fresco, reggevano ciascuno una delle antiche bandiere d’alleanza; dopo i valletti dodici prefiche, vestite di neri manti, coi capelli scarmigliati, stavano tutt’intorno al catafalco coi fazzoletti in mano, per asciugarsi le lacrime. Ma bisognava lavorar di gomiti, camminare sui piedi dei vicini, lasciarsi ammaccare le costole e pestare i calli e sudare una camicia prima d’arrivare a quell’apparato, intorno al quale una folla d’operai, di servi, di donnicciuole stava estatica ad ammirare, in attesa del corteo, il finto marmo della piattaforma, le urne di cartone scaglionate sui gradini, le lacrime di carta argentata gocciolanti dai veli neri: «Una galanteria!… Una cosa mai vista!… Per questo sono signoroni!… Lasciate fare a loro!… E dodici piangenti!… Neanche pel funerale del papa!… Ma il cadavere è già posto al colatoio per l’imbalsamazione.» E Vito Rosa, il barbiere del principe, spiegava: «Appena sceso dal Belvedere fu portato a palazzo e gli fecero girare gli appartamenti per l’ultima volta, come usano… Il cataletto era portato a spalla, senza stanghe… e tutta la parentela dietro, la servitù con le torce accese, come una processione!…» Le comari esclamavano: «E una tegola sotto il capo!… Che gli mancavano forse cuscini di velluto?… Anzi, questo è per maggior penitenza, con la tonaca di San Placido: non capite?»

      Ma la gente incalzava alle spalle e i discorsi s’interrompevano, i primi arrivati dovevano cedere il posto, se ne andavano sotto il palco dell’orchestra, eretto a ridosso dell’organo, con quattro ordini di panche e i manichi dei contrabbassi che spuntavano dal più alto, ma ancora vuoto; o giravano dalla parte opposta, verso la cappella della Beata Uzeda, tutta splendente di lampade votive; e si fermavano, una volta fuor della ressa, a guardare l’altare scavato dove si vedeva, attraverso un vetro, la cassa antica rivestita di cuoio, che racchiudeva il corpo della santa donna; poi tentavano tornare verso il centro della chiesa per leggere le iscrizioni attaccate agli altri altari; ma la folla era adesso compatta come un muro. Don Cono Canalà, data un’occhiata all’apparato, aveva tentato tre o quattro volte, per conto suo, d’avvicinarsi a qualcuno degli epitaffi, ma non era riuscito a spingersi tanto innanzi da leggerli; e col capo rovesciato, il cappello ammaccato dai continui urtoni, i piedi pestati, la camicia in sudore, tangheggiava come una barca in mezzo alla tempesta. Con belle maniere, dicendo: «Di grazia!… La prego!… Mi scusi!…» arrivò finalmente a tiro della prima tabella, dove leggevasi:

      SOTTO MULIEBRI SPOGLIE

      CUORE GAGLIARDO PIETOSO

      ANIMO ELETTO MUNIFICO

      SPIRITO SVEGLIATO FECONDO

      ONNINAMENTE DEGNA

      DELLA MAGNANIMA STIRPE

      CHE LA FE’ SUA

      «Onninamente?....» disse il barone Carcaretta che si trovava a fianco di don Cono. «Che cosa significa?»

      «Importa interamente, o vogliam dire del tutto… Onninamente degna della stirpe… Come le piace questo concetto?…»

      «Eh, va bene; ma non capisco perché si divertano a pescar le parole difficili!»

      «Veda…» spiegò allora don Cono, insinuante: «lo stile epigrafico tiene al sommo grado del nobile e del sostenuto… Io non potevo adoprare…»

      «Ah, l’avete scritta voi?»

      «Sissignore… ma non solo, veramente: di unita col cavaliere don Eugenio… Io ho curato sovra tutto la forma… Bramerei vedere le altre: temo non abbian preso un qualche abbaglio, in copiando…»

      Ma la chiesa era talmente gremita che potevano appena fare due passi ogni quarto d’ora; e tutt’intorno la gente che non riusciva ad andare né avanti né indietro né a veder altro fuorché la cima della piramide, ingannava l’impazienza dell’attesa chiacchierando, dicendo vita, morte e miracoli della principessa: «Adesso i suoi figli potranno respirare! Li ha tenuti in un pugno di ferro…» «I suoi figli: quali?…» «Costrinse don Lodovico, il secondogenito, a farsi monaco mentre gli toccava il titolo di duca; la primogenita fu chiusa alla badìa!… Se campava ancora ci avrebbe messo anche l’altra!… Maritò Chiara perché questa non voleva maritarsi!… Tutto per amor d’un solo, del contino Raimondo…» «Ma il padre?…» «Il padre, ai suoi tempi, non contava più del due di briscola; la principessa teneva in un pugno lui e il suocero!…»

      Però tutti riconoscevano che, se non fosse stata lei, a quell’ora non avrebbero avuto più niente. Ignorante, sì; ma accorta, calcolatrice!

      «È vero che non sapeva leggere né scrivere?»

      «Sapeva leggere soltanto nel libro delle devozioni e in quello dei conti!»

      Frattanto don Cono avvicinavasi, a passo di formica, alla seconda iscrizione:

      ORBATA

      DEL TUO FIDO CONSORTE

      NEL MORTALE VIAGGIO

      VECE FACESTI

      AL TUOI FIGLI

      DEL PADRE LORO.

      Prima ancora di scorgere i caratteri, don Cono che la sapeva a memoria, recitò l’epigrafe al barone, fermandosi un poco a ciascuna parola, più a lungo ad ogni capoverso, gestendo con la mano come se spruzzasse acqua benedetta, per sottolineare i passaggi salienti:

      «Ignoro se approvate questo concetto: orbata… vece facesti…»

      Ma nuove ondate

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