I Vicere. Federico De Roberto

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I Vicere - Federico De Roberto

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tarì, e che feci? Niente!… Qui vi dico che si sono spese cent’onze di sole torce…»

      «Sst… il Lux aeterna.»

      Ad ogni passaggio della messa operavasi un rimescolamento nella folla: alcuni tentavano uscire, la più parte mutavan di posto, giravano intorno al catafalco, andavano a leggere le iscrizioni. Restava a don Cono da verificar l’ultima; don Casimiro gli si pose alle costole, seguito da parecchi della comitiva.

      AHI DURA MORTE

      IL PIANTO

      D’UNA ILLUSTRE PROSAPIA

      D’UN POPOLO INTERO

      A DISARMARE IL TUO BRACCIO

      NON VALSE

      «Benissimo!» fece don Casimiro. «La prosapia è illustre: discende difilato dall’anche d’Anchise. Il popolo piange: non vedete le lacrime?» e mostrava quelle d’argento che frangiavano l’addobbo funebre. «Piangono anche le ragazze dell’Orfanotrofio… pensando che andranno a finir cameriere dell’illustre principe…»

      «Parmi sconvenga…» obiettò don Cono.

      «E v’accerto io che sono tutti disperati per bene che si vogliono in casa. Poh! Non possono stare un giorno senza abbracciarsi e baciarsi…»

      «Parmi sconvenga…»

      «Prudenza, signori miei… siamo in chiesa!»

      Giusto, la ripresa del Dies irae assordava tutti; i frati erano scesi verso il catafalco, benedicendo; la musica intonava il Libera me, riprendeva le frasi del principio, implorava il Requiem. «È finito?… Se Dio vuole!» E un rimescolamento generale: chi era rimasto lontano dal catafalco e dalle iscrizioni vi si dirigeva; molti che non reggevansi più in piedi dalla stanchezza, s’avvicinavano alle porte; ma lì la confusione e la ressa ricominciavano più grandi; perché tutta la gente rimasta fuori, credendo che, finita la messa, fosse agevole entrare, s’affollava tumultuosamente, cozzando contro quelli che volevano uscire, travolgendo gli storpi, i ciechi e i mutilati che arrischiavano nuovamente di tender la mano ai passanti. «Adagio!… I piedi!… Che maniera!» e dominando quel vocìo veniva dalla piazza un incessante scalpitar di cavalli: le carrozze del corteo funebre che sfilavano una dopo l’altra andandosene.

      Il principe di Roccasciano, affacciato dalla terrazza, le veniva numerando:

      «Sette tiri a quattro, sessantatrè carrozze padronali, dodici di rimessa» disse, quando passò l’ultima. E fece il conto: «A dodici tarì l’una, tolte quelle di famiglia, sono trentaquattr’onze!…»

      Allora l’onda degli spettatori cominciò a disperdersi. I poveri rimasti accoccolati lungo i muri poterono finalmente trascinarsi ai loro posti; ma oramai non passava più nessuno.

      2

      Verso sera, mentre la servitù raccolta nel cortile commentava ancora la magnificenza del funerale, arrivò dalla via di Messina il conte Raimondo con la contessa Matilde. Baldassarre, udendo il tintinnìo delle sonagliere, si precipitò giù per lo scalone e arrivò allo sportello della corriera giusto nel momento che questa arrestavasi e che il padrone saltava giù.

      «Chi c’è?» domandò il contino, troncando con voce breve le cerimonie di Baldassarre e mostrando le carrozze allineate nella corte.

      «Visite pel signor principe, Eccellenza…» e subito il maestro di casa prese l’aspetto grave e triste conveniente alla circostanza luttuosa.

      Il conte s’avviò per lo scalone senza curarsi della moglie né del bagaglio. Baldassarre, a capo chino, offerse il gomito alla signora contessa, ma ella smontò senza appoggiarsi. «Più bella che mai!» giudicavan le donne che le si appressavano rispettosamente, «quantunque un po’ dimagrata, in verità…» La moglie del portinaio osservò anche: «Pare più afflitta lei del contino… E con che dolce voce pregava che portassero su le valige e i sacchi da notte, e rispondeva al: “Benvenuta, Eccellenza!” dei servi, informandosi della loro salute, domandando a Giuseppe se il suo bambino stava bene e a donna Mena se la sua figliuola s’era maritata!…»

      Su, nelle anticamere, il principe e Lucrezia vennero incontro al fratello ed alla cognata. Raimondo si lasciò baciare dalla sorella, e, stretta la mano che Giacomo gli tendeva, entrò nella Sala Gialla, zeppa di gente al pari della Rossa, poiché, tolto il divieto di lasciar salire i soli prossimi parenti, ora i cugini in quarto e in quinto grado, gli affini, gli amici venivano in processione a condolersi della gran disgrazia. Tutti, all’apparire della contessa Matilde, si levarono, ad eccezione di don Blasco e di donna Ferdinanda. Quest’ultima, quando la nipote le baciò la mano, borbottò un: «Ti saluto» freddo freddo; quanto a don Blasco, non le rispose neppure. Egli vociava, gesticolando:

      «Vogliono il resto? Ah, vogliono il resto? Se vogliono il resto, non hanno da far altro che chiederlo!…»

      L’incontro del Priore con Raimondo fu osservato da tutti: il Priore che stava seduto accanto a Monsignor Vescovo col Vicario e parecchi canonici, appena scorto il fratello s’alzò e gli aperse le braccia: Raimondo si lasciò abbracciare un’altra volta, ma quelle dimostrazioni d’affetto lo seccavano visibilmente. Poi il principe lo condusse via, e tutti ripresero i loro posti e i discorsi interrotti.

      In un gruppo di pezzi grossi dove c’erano, fra gli altri, il presidente della Gran Corte, il generale e alcuni senatori municipali, don Blasco continuava a fiottare contro i rivoluzionari e i quarantottisti che minacciavano d’alzar la coda. Non era bastata loro la famosa lezione spiegata da Satriano? Volevano il resto? Sarebbero stati immediatamente serviti!

      «Ma la colpa più grande credete forse che sia dei sanculotti o di quel ladro di Cavour? È di quei ruffiani che per la loro posizione dovrebbero sostenere il governo e invece si mettono coi morti di fame!»

      Egli l’aveva principalmente col fratello duca che s’era fitto in capo di fare il liberalone, lui, il secondogenito del principe di Francalanza! Il marchese di Villardita approvava, chinando la testa, giudicando però che i rivoluzionari, con o senza l’aiuto dei signori, sarebbero rimasti cheti almeno per un altro mezzo secolo: la città portava ancora i segni della terribile repressione dell’aprile Quarantanove: non erano del tutto scomparse le tracce del fuoco e del saccheggio, e mezza popolazione piangeva i morti, i condannati all’ergastolo, gli esiliati.

      Il Priore, tornato a sedere accanto a Monsignore, nel gruppo delle tonache nere, deplorava anch’egli, a bassa voce, l’iniquità dei tempi per via della legge piemontese contro le corporazioni religiose; e don Blasco, nel crocchio opposto:

      «Adesso fanno la guerra senza denari! Rubando la Chiesa di Cristo! E quel celebre d’Azeglio? Avete letto il suo sproloquio?…»

      Dalla parte delle donne la principessa se ne stava in un angolo, un po’ alla larga, per evitar contatti. Donna Ferdinanda, seduta vicino al principe di Roccasciano, parlava con lui d’affari, del raccolto, del prezzo delle derrate, mentre la principessa di Roccasciano raccontava alla baronessa Cùrcuma un suo sogno, la madre che le era apparsa con tre numeri in mano: 6, 39 e 70, sui quali avea giocato dodici tarì di nascosto del marito. Le ragazze Mortara e Costante, amiche di Lucrezia, parlavano d’abiti a quest’ultima, per divagarla, quantunque ella non desse loro ascolto e rispondesse a sproposito, com’era sua abitudine; ma la cugina Graziella teneva da sola animata la conversazione, rivolgendosi a tutti ed a ciascuno, passando da una sala all’altra chiacchierando d’abiti, di sarte, della Crimea, del Piemonte, della guerra, del colera. Stanca del viaggio, la contessa Matilde parlava poco, aspettando di ritirarsi nelle sue camere; don Cono, venuto a mettersele vicino, le recitava tutte le epigrafi da lui composte

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