I Vicere. Federico De Roberto

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I Vicere - Federico De Roberto

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lodava la morta e rammentava i tempi del noviziato di Padre Lodovico, quando, conducendo a casa il ragazzo in permesso, le portava regalucci di frutta che la buona signora degnavasi di accettare.

      «Alla mano con tutti!… Affezionata con tutti!… Povero Padre Lodovico! Deve aver pianto!»

      Le donne esclamarono:

      «Figuriamoci! Un santo come lui!…»

      E fra’ Carmelo:

      «Un vero santo! Non c’è monaci che gli possano stare a paragone. Non per nulla l’han fatto Priore a trent’anni!»

      «Suo zio don Blasco non gli somiglia?…» disse improvvisamente il cocchiere maggiore, con una strizzatina d’occhi.

      «È un’altra cosa. Tutti gli uomini possono esser formati a un modo?… Ma bravo anche lui!… Signore anche lui!…»

      E giusto il discorso era a quel punto, quando un lontano rumore di carrozza con le sonagliere fece tacer tutti. Giuseppe, guardando dallo sportello, spalancò il portone: il carrozzino della mattina entrò a rotta di collo e ne scesero il principe e il signor Marco che teneva una valigia in mano, mentre tutti si scoprivano e dalla loggia del piano nobile affacciavasi don Blasco.

      Il ritorno del capo della famiglia, nella Sala Gialla, produsse una nuova commozione: sospiri, singhiozzi, mute strette di mano. Il principe era sempre pallido e parlava a stento, con gesti larghi di sconforto:

      «Troppo tardi!… Più nulla da fare!… Fino a iersera stava benissimo, mangiò anzi con appetito due uova e bevve una tazza di latte… All’alba di stamani, improvvisamente, chiamò e…» e tacque, quasi non potendo proseguire.

      Il signor Marco, deposta la valigia, confermava:

      «Impossibile prevedere questa catastrofe… Nel primo momento, speravo fosse soltanto una sincope… ma purtroppo la triste verità…» Chiara e la cugina piangevano; il Priore deplorava specialmente che nessun sacerdote l’avesse assistita negli ultimi istanti; ma il signor Marco assicurò che ella erasi confessata due giorni innanzi, che il Vicario Ragusa era arrivato in tempo a darle l’assoluzione; mentre il principe da canto suo riferiva:

      «Abbiamo improvvisato una cappella ardente… tutti i fiori della villa… ne hanno mandati da ogni parte…»

      «E Ferdinando?» domandò Chiara

      «Non è venuto?… Ah!» Egli si battè a un tratto la fronte. «Dovevo passar io ad avvertirlo!… Me ne sono scordato!… Baldassarre!… Baldassarre!…»

      Ma, sul più bello, don Blasco, il quale aveva tenuto d’occhio la valigia quasi ci fosse dentro roba di contrabbando, lo tirò per la manica, domandando: «E il testamento?»

      Il principe, con un altro tono di voce, non più dolente, ma premuroso, pieno di scrupoli:

      «Il signor Marco qui presente» rispose, «m’ha comunicato che le ultime volontà di nostra madre sono depositate presso il notaio Rubino. Noi aspetteremo, se credete, l’arrivo di Raimondo e dello zio duca… Frattanto, abbiamo suggellato tutto quel che s’è trovato, per renderne stretto conto, a suo tempo, a chi di ragione… Il signor Marco possiede però un documento che riguarda i funerali… Credo che di questo si debba dar subito lettura…»

      E il signor Marco, tratto di tasca un foglio, lesse in mezzo a un profondo silenzio:

      «In questo giorno, 19 maggio 1855, trovandomi sana di mente e non di corpo, io sottoscritta, Teresa Uzeda principessa di Francalanza, raccomando l’anima a Dio e dispongo quanto appresso. Il giorno che piacerà al Signore chiamarmi con sé, ordino che il mio corpo sia affidato ai Reverendi Padri Cappuccini affinché sia da essi imbalsamato e nella necropoli del loro cenobio custodito. Voglio che il funerale sia celebrato, con quel decoro che compete alla famiglia, nella chiesa dei detti Padri in segno della mia devozione alla Beata Ximena, nostra gloriosa parente, la cui salma nella loro chiesa si venera. Durante il funerale e dopo che il mio corpo sarà imbalsamato, voglio, ordino e comando che esso sia vestito della tonaca delle Religiose di San Placido, e che alla cintura mi sia messa la corona del Santissimo Rosario donatami dalla mia diletta figlia Suor Maria Crocifissa il giorno della sua monacazione, e che sul petto mi sia posto il crocifisso d’avorio, memoria del mio amato consorte principe Consalvo di Francalanza. In segno di particolare penitenza ed umiltà, espressamente impongo che il mio capo sia appoggiato sopra una semplice e nuda tegola: così voglio e non altrimenti. Per la necropoli dei Cappuccini ordino che si costruisca una cassa a cristalli, dentro alla quale sarà posto il mio corpo nel modo di cui sopra; essa avrà una serratura con tre chiavi delle quali una rimarrà a mio figlio Raimondo conte di Lumera, la seconda, in segno di speciale benevolenza pei servigi prestatimi, al signor Marco Roscitano, mio procuratore e amministratore generale, e la terza al reverendo Padre Guardiano di esso cenobio dei Cappuccini. Nel caso però che il detto signor Roscitano dovesse lasciare l’amministrazione della mia casa, ordino che la chiave passi all’altro mio figlio Lodovico, Priore nel monastero di San Nicola dell’Arena. Questa è la mia volontà e non altra.

      Teresa Uzeda»

      Il signor Marco, che s’era rispettosamente inchinato al passaggio relativo alla sua persona, abbassò il foglio; il principe disse guardando in giro gli astanti:

      «Le volontà di nostra madre sono leggi per noi. Sarà fatto secondo ha prescritto.»

      «In tutto e per tutto…» confermò il Priore, chinando il capo.

      Don Blasco, che soffiava come un mantice, non aspettò neppure che l’adunanza si sciogliesse. Afferrato il marchese per un bottone del soprabito, esclamò:

      «Sempre pulcinellate?… Fin all’ultimo?… Per far ridere la gente?…»

      E il signor Marco era appena salito al primo piano, nelle stanze dell’amministrazione contigue al suo quartierino, per dare ai dipendenti gli ordini opportuni, che le persone venute a cercarlo si presentarono a lui. Il ceraiolo di San Francesco veniva a offrire cera di prima qualità, lavorata all’uso di Venezia, a sei tarì; il maestro Mascione portava una lettera dell’avvocato Spedalotti, il quale pregava il signor Marco di far eseguire la messa di requiem del giovane compositore; Brusa, il pittore, sollecitava l’appalto della decorazione pel funerale solenne della principessa…

      «Come sapete che ci sarà un funerale solenne?»

      «Per una signora come la principessa!»

      «Ripassate domani…»

      E Baldassarre chiamava:

      «Signor Marco! Signor Marco!… Il principe!…»

      Ma nuovi postulanti sopravvenivano. Nessuno l’aveva ancor detto, ma si sapeva che la principessa di Francalanza non poteva andare all’altro mondo senza una gran cerimonia, senza un gran scialacquo di quattrini, e ognuno sperava di guadagnarne. Raciti, il primo violino del Comunale, voleva offrire la messa funebre di suo figlio; saputo che Mascione aveva ottenuto una lettera di Spedalotti, era corso a sollecitare la raccomandazione più valevole del barone Vita; Santo Ferro, che aveva la manutenzione del giardino pubblico, sperava gli commettessero la camera ardente, e poiché Baldassarre, dal cortile, tornava a chiamare:

      «Signor Marco! Signor Marco!… Il principe!…» il signor Marco si sbarazzò bruscamente dei postulanti:

      «Ma andate al diavolo!… Ho altro da fare, adesso!»

      Un formicaio, la chiesa dei Cappuccini nella mattina del sabato, che

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