I Vicere. Federico De Roberto
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La principessa glielo aveva dato per molte ragioni. Prima di tutto le era nata, dopo i quattro maschi, una terza figlia, quindi ella aveva ragionato o «sragionato», a giudizio di don Blasco, così: delle tre, la prima monaca, la seconda a marito, l’ultima in casa. Ora il marchese, innamorato della ragazza, prometteva non solo di prenderla senza dote, ma di prestarsi anche ad una piccola commedia. Se fermo proposito della madre era che la sostanza della casa non fosse intaccata dalle femmine, il suo orgoglio di principessa di Francalanza non poteva consentire che la gente vantasse la generosità del genero nel prendersi Chiara senza un baiocco, quasi togliendola all’ospizio delle trovatelle. Pertanto, nei capitoli matrimoniali ella aveva costituito alla figlia una rendita di dugent’onze annue: così diceva l’atto registrato dal notaio Rubino e così sapevano tutti; ma poi il marchese le aveva rilasciato un’àpoca, accusando ricevuta dell’intero capitale di quattromila onze, delle quali non aveva visto neppure tre denari!
Ora don Blasco, il quale s’era già messo contro al marchese pel matrimonio con Chiara, e contro Chiara per la repentina conversione dall’odio all’amore verso il marito, aveva fatto un torto estremo ad entrambi della finzione a cui s’eran prestati per obbedire a quella pazza da legare della cognata. Un altro torto più grosso, forse imperdonabile, essi avevano commesso non facendo valere i loro diritti all’eredità paterna. Infatti, secondo il Benedettino, la casa Uzeda non era interamente distrutta quando c’era entrata donna Teresa; e ad ogni modo, siccome le rendite delle proprietà erano state riscosse anche nei tempi peggiori, bisognava che la principessa le conteggiasse, potendo dare a bere solo ai gonzi che esse fossero servite alle spese del mantenimento quotidiano. Avevano aiutato, invece, a pagare i debiti e a salvar le proprietà; erano quindi confuse nel patrimonio ricostruito e andavano ascritte all’attivo del principe Consalvo vii. Costui, da quell’imbecille che era sempre stato, aveva potuto coronare la sua corta e stupida vita con quel pulcinellesco testamento, impostogli e dettatogli dalla moglie, col quale dichiarando distrutto il suo patrimonio per disgrazie di famiglia, «la grazia delle disgrazie!», lasciava ai figli, «cose, cose da far recere i cani!…», l’affetto della madre; i figli, però, se non erano più imbecilli del padre, dovevano chiedere i conti, fino all’ultimo tornese. Il monaco era per questo andato assiduamente dietro ai nipoti, fuorché a Raimondo, al quale non rivolgeva la parola da anni ed anni per la ragione che era stato il beniamino della madre, incitandoli a farsi valere; ma nessuno, vivendo la principessa, aveva osato fiatare; ed egli li aveva a malincorpo scusati, attesa la soggezione a cui erano stati avvezzi da colei; ma quel marchese che le era soltanto genero, che non doveva quindi temerla, che era stato giuntato una prima volta nell’affare dei capitoli, fu per don Blasco l’ultimo dei minchioni non risolvendosi a parlar forte; e perché poi? di grazia, perché? Perché dichiarava d’aver sposato Chiara pel bene che le voleva, non per i quattrini che potevano venirgli!… La collera del monaco fu tale da procurargli uno stravaso di bile; ma, col tempo, egli s’era acchetato, aspettando la morte della cognata per riscendere in campo. Crepata costei, finalmente, e aperto quel bestiale testamento, il furioso Cassinese dimenticava adesso le bestialità di Federico e di Chiara per dar loro un nuovo assalto, per deciderli a muoversi. La morta, invece di dichiarare «onestamente» quant’era la parte del marito e dividerla «equamente» a tutti i figli, disponeva invece dell’intero patrimonio come di cosa propria! Non contenta di ciò, defraudava i legittimari fingendo di assegnar loro una quota superiore alla legale, dando loro in realtà «quattro grani»! Chiara, specialmente, era spogliata «come in un bosco», giacché il testamento non diceva parola del legato del canonico Risà. Questo era un altro pasticcio combinato tempo addietro da donna Teresa. Tra gli altri argomenti per vincere la resistenza di Chiara e indurla al matrimonio col marchese, ella aveva ricorso a quello dei quattrini e, per non sciogliere i cordoni della propria borsa, tirato in ballo un suo zio, il canonico Risà di Caltagirone, il quale prometteva un legato di cinquemila onze a favore della pronipote se la ragazza avesse sposato il marchese di Villardita. Nell’atto era intervenuta donna Teresa per garantire l’assegno, a condizione che la somma si trovasse realmente nel patrimonio del canonico, il quale prometteva di lasciare ogni cosa a lei. Invece, due anni avanti il canonico era morto, dividendo la roba tra una sua perpetua e la principessa, e costei s’era allora rifiutata di riconoscere il patto stabilito: né il marchese, per rispetto, per disinteresse, aveva pensato di chiederne l’esecuzione. Don Blasco, adesso, poiché neppure nel testamento la cognata s’era rammentata di quel suo obbligo, poiché ella aveva combinato «con arte infernale» anche