I Vicere. Federico De Roberto

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I Vicere - Federico De Roberto

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chiamare, il giorno della morte di tua madre?»

      «Non è possibile!» rispondeva Ferdinando, scandalizzato. «E perché, poi?»

      «Per far sparire carte e valori! Scappò lassù, si mise a rovistolare tutta la villa: le cose si risanno! E poi ha fatto la commedia dei suggelli. Te ne accorgerai all’atto dell’inventario, anima vergine!»

      Il monaco smaniava dall’impazienza per quest’inventario; ma il principe invece pareva non avere fretta di conoscere quel che c’era in casa, non parlava d’affari a nessuno dei fratelli e delle sorelle, neppure al coerede Raimondo, il quale da parte sua pensava a tutto, fuorché a chiedergliene conto. Nonostante il lutto, stava sempre fuori casa, al Casino dei Nobili, a ragionar di Firenze coi vecchi amici, a far la sua partita o a giudicare gli equipaggi che sfilavano nell’ora del passeggio. E don Blasco intronava le orecchie di Ferdinando di invettive contro il fratello. Era «uno scandalo, una mancanza di rispetto alla morta calda ancora», la condotta di quello scapestrato che badava unicamente a spassarsi, che non era venuto a «chiuder gli occhi alla madre», neppure per amor dei quattrini che ella gli voleva dare brevi manu, «rubandoli agli altri!…» Ora il giorno che, cominciato finalmente l’inventario, risultò che in cassa c’erano soltanto cinque onze e due tarì di contanti, e un titolo di rendita di cento ducati, il monaco corse alle Ghiande come impazzito.

      «Hai visto? Hai visto? Hai visto?… Che ti dicevo? Cinque onze! Tua madre non ne teneva mai meno di mille! E la rendita, la rendita! Fino a cinquemila ducati li sapevo io!… Capisci adesso! Hai visto come v’ha rubati il suo caro fratello? Quel ladro del signor Marco gli ha tenuto il sacco! Rubati! Rubati! Se non gridate, se non vi fate sentire, siete degni che vi sputino in viso.»

      Non la finiva più, dimostrando al nipote, intontito dalle grida, la nuova magagna. Perché mai, dunque, Giacomo lasciava al suo posto il signor Marco, mentre aveva già cacciato via tutti i servi protetti dalla madre, il cocchiere maggiore, il cuoco, tutti coloro ai quali ella aveva lasciato qualcosa? Quel «porco» del signor Marco, l’«anima dannata» della defunta, avrebbe dovuto esser preso «a calci nel preterito» appena la sua protettrice aveva chiuso gli occhi; invece perché mai, dopo due mesi, era ancora in servizio? Appunto perché, appena morta la padrona antica, s’era buttato «vigliaccamente» ai piedi del padrone nuovo, gli aveva consegnato ogni cosa, gli aveva lasciato «rubare» i valori che andavano «a tutti» o per lo meno «al coerede!…»

      E quella bestia di Ferdinando che faceva l’ingenuo, che non voleva credere a tante porcherie e si dichiarava grato alla madre pel condono delle mille e cinquecent’onze! Quasi che quello strozzato contratto tra madre e figlio non fosse stato immorale, quasi che la principessa non avesse a bella posta stabilito un canone superiore al frutto del podere per meglio impaniar quell’allocco!… Tuttavia, a furia di predicargli che gli toccava di più, che avrebbe potuto essere ricco più del doppio, più del triplo, il monaco sarebbe forse riuscito a scuotere il nipote se, come parlando male del marito a Chiara, non avesse commesso anche con Ferdinando una grave imprudenza. Rifiutando il testamento, chiedendo la divisione legale, Ferdinando temeva che le Ghiande andassero in mano ad altri, o che, per lo meno, egli dovesse spartirle coi fratelli; don Blasco, che gli dimostrava la possibilità di tenerle tutte per sé, un giorno gli cantò:

      «E finalmente se perderai questo fondo, ne acquisterai in cambio un altro che varrà centomila volte più!…»

      «Eccellenza no,» rispose Ferdinando; «come questo non ce n’è altri in casa nostra…»

      «Le Ghiande?» scoppiò allora il monaco. «Una terra che si chiamava le Ghiande? Buona veramente a buttarci una mandra di maiali? E che ci vengono, fuorché le ghiande? Ora specialmente che hai finito di rovinarla con le tue speculazioni pazzesche?»

      Ferdinando, a sentirsi così buttar giù la terra e l’opera propria, ammutolì e arrossì come un pomodoro; poi, ricuperata la voce, dichiarò:

      «Eccellenza, sa come dice il proverbio? Ne sa più un pazzo in casa propria che un savio nell’altrui!»

      Allora il monaco, eruttata una buona quantità di male parole contro quel malcreato, non rifece più la via del suo «porcile» e si ridusse a porre l’assedio intorno a Lucrezia. L’aveva serbata per l’ultima, poiché, se nutriva un’antipatia istintiva contro tutti i nipoti, era specialmente furioso contro questa qui.

      Come Chiara e Ferdinando, Lucrezia non ricordava una carezza della madre; ma dove Chiara aveva avuto da principio agli occhi del monaco il merito relativo della resistenza opposta alla principessa nell’affare del matrimonio, e Ferdinando quello d’essere andato via di casa, la nipote più piccola non aveva altro che torti, uno più capitale dell’altro. Sotto la sferza di donna Teresa, trattata con particolare durezza per esser nata quando costei non aspettava più altri figli, considerata come un’intrusa venuta a rubare parte della roba già destinata ai due maschi, Lucrezia era cresciuta come «una marmotta», diceva il Benedettino: tarda, taciturna, selvatica come Ferdinando, e sempre così distratta che le sue risposte erano oggetto di risa per tutti fuorché per lo zio Blasco che se la mangiava viva.

      Asservendo e maltrattando la figlia, la principessa non dimenticava tuttavia lo scopo principale da raggiungere: cioè di lasciarla zitellona in casa. Perciò ella dimostrava assiduamente, quotidianamente a Lucrezia che il matrimonio non era fatto per lei; prima di tutto per la cattiva salute – e invece la ragazza stava benissimo; poi perché così voleva il bene della casa – e le additava l’esempio di donna Ferdinanda; poi perché, senza quattrini, non avrebbe potuto mai trovare un partito conveniente – e l’eccezione del marchese Federico confermava la regola; e finalmente perché, quasi tutto questo non bastasse, era anche brutta – e qui diceva la verità. Quando la vedeva allo specchio, o le rare volte che la ragazza assisteva alle visite che venivano per la madre, costei esclamava: «Ma come sei brutta, figlia mia!… Che disgrazia avere una figlia così brutta, è vero?» L’argomento più persuasivo era nondimeno quello della povertà: la roba apparteneva «ai maschi»; quando i fattori le portavano sacchi di quattrini, ella diceva a Lucrezia: «Vedi questi? Sono tutti dei maschi…» e se la ragazza alzava gli occhi alle mappe dei feudi appese nelle anticamere, la madre ripeteva: «Che guardi? Sono le proprietà dei maschi!» Quando il discorso, presente la figlia, cadeva sui matrimoni, donna Teresa ammoniva: «Di che parlate dinanzi alle ragazze?» e a quattr’occhi le diceva che pensare al matrimonio era peccato mortale, da confessarsene: e il confessore, Padre Camillo, confermava in queste idee Lucrezia; poi la principessa ricominciava, fino alla sazietà: «Tu del resto non hai niente, devi restare in casa per forza: chi ti vorrà sposare senza denari?» Quanto a Chiara, era stata un’altra cosa: si era trovato uno che la prendeva con la sola camicia, perché la sapeva savia, timorata di Dio, obbediente alla madre. E addolcendo la pillola, la principessa si lasciava scappare di tanto in tanto: «Se anche tu sarai come tua sorella, poi ti compenserò altrimenti.»

      Così era cresciuta Lucrezia: costantemente mortificata e umiliata, segregata dal mondo più che nella badìa, invisa ai fratelli maggiori ed agli stessi zii, tiranneggiata un poco anche da Chiara che per avere cinque anni più di lei faceva la grande; unicamente voluta bene e protetta da Ferdinando, col carattere del quale s’accordava molto il suo. Il Babbeo aveva già da badare a se stesso, non godendo troppe grazie in famiglia; ma dimostrava come poteva a Lucrezia il bene che le voleva. Maggiore appena d’un anno, egli giocò con lei, le diede i balocchi da lui stesso costruiti; più tardi, quando egli ebbe qualche nozione di lettere, quando apprese da sé a disegnare, a far minuti lavorucci, comunicò la sua scienza alla sorella per la quale non si faceva la spesa d’un maestro. Del resto la compagnia e la protezione di Ferdinando non fu la sola di cui godé Lucrezia: ella ebbe anche quella di donna Vanna, una delle cameriere; e la principessa, sempre all’erta, non vide il pericolo che correva da questa parte.

      La servitù, in casa Francalanza, era pagata poco e avvezza a tremare dinanzi alla padrona; nondimeno raramente qualcuno andava via se non era congedato, perché tutti trovavano il mezzo di rifarsi moralmente e materialmente

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