Tanto era avara, anche; giacché non spendeva per sé più dei due tarì al giorno che passava alla principessa in cambio del vitto e del servizio che questa le assicurava: quanto all’alloggio, le avevano lasciato la cameruccia al terzo piano, sotto i tetti, che aveva occupata da bambina, e per vestirsi ricomprava le robe smesse dalla cognata. Così, a poco a poco, aveva esteso la cerchia dei suoi affari e formato un gruzzoletto che circolava tra persone di maggior levatura, negozianti in grosso, speculatori ragguardevoli, proprietari in imbarazzo. Allora, secondo che la sua sostanza venne crescendo, nacque una sorda gelosia nell’animo della principessa e di don Blasco contro la cognata e la sorella. Con metodi diversi, donna Ferdinanda lavorava al conseguimento d’uno scopo simile a quello di donna Teresa. Costei voleva salvare ed accrescere la fortuna degli Uzeda, quella aveva l’ambizione di crearne una di sana pianta. Ora, partendo donna Ferdinanda dal nulla, la sua gloria sarebbe stata maggiore, avrebbe offuscato quella di donna Teresa: di qui la sorda antipatia della principessa, i sarcasmi coi quali punzecchiava l’avarizia della cognata; giacché la propria era naturalmente legittima ed ammirabile. Quanto a don Blasco, il dolore da lui provato nel dover rinunziare al mondo s’inacerbiva tutte le volte che qualcuno dei parenti acquistava fama, potenza e quattrini: vedendo dunque la sorella far quello che egli stesso avrebbe fatto, se fosse rimasto al secolo, e riuscire oltre ogni previsione, rapidamente, il sangue gli ribolliva, l’umore gli s’inaspriva, l’invidia lo avvelenava. Donna Ferdinanda parve insensibile ai sarcasmi ed alle asprezze della cognata e del fratello. Le conveniva, pel momento, tacere, giacché era e voleva continuare ad esser ospite della principessa, finché i propri quattrini sarebbero stati tanti da permetterle di avere una casa propria. Parenti e amici la consigliavano ogni giorno di togliere quel suo peculio dalla circolazione troppo pericolosa, di acquistarne piuttosto solidi immobili; ella scrollava il capo, affermava che i suoi denari non correvano rischio di sorta, perché solo «chi presta senza pegno perde i denari, l’amico e l’ingegno»; in realtà ella aspettava d’aver tanto da poter fare una compra ragguardevole. Nel ‘42, dieci anni dopo d’essere entrata in possesso del suo magro piatto, stupì tutta la parentela acquistando all’asta pubblica per cinquemila onze il fondo del Carrubo, bel pezzo di terra che ne valeva dieci; fortunata, cioè accorta anche in questo: nell’aver saputo cogliere la magnifica occasione. Era noto a tutti che possedeva un capitaletto, nessuno immaginava che in dieci anni avesse messo insieme una piccola sostanza. Cognata e fratello furono più mordenti di prima, specialmente vedendo che ella non spendeva per sé un carlino di più: ella lasciò dire, continuando a speculare con le quattrocent’onze di rendita che adesso possedeva. Le faceva fruttare quanto più poteva, non ne perdeva un grano, e quando le cambiali scadevano, il notaio, il sensale o il patrocinatore venivano a portarle il suo avere in tanti bei pezzi di colonnati lucenti e sonanti. Patrocinatore, notaio e sensale erano i suoi amici. Fra la gente che frequentava il palazzo Francalanza ella sceglieva, per tirarseli a fianco, i più destri, i più prudenti, quelli che avevano come lei l’intelligenza e la passione degli affari, dai quali poteva sperare informazioni e suggerimenti. E il principe di Roccasciano, gran signore da quanto gli Uzeda, ma con pochi quattrini che s’era proposto di moltiplicare e che moltiplicava infatti, pazientemente, prudentemente, senza la spilorceria e le durezze di lei, era il suo consigliere preferito. Nel ‘49, quando meno l’aspettava, le si presentò l’occasione di comprar la casa. Ella aveva dato certe mille onze al cavaliere Calasaro, il cui figliuolo, complicato nella rivoluzione, era stato costretto a prendere le vie dell’esilio. Il padre, spogliatosi ed esaurito tutto il suo credito per non fargli mancare nulla, non poté, alla scadenza, soddisfare donna Ferdinanda. Costei, fiutando il vento, volle esser pagata subito subito, e minacciò la espropriazione e lanciò la prima citazione. Il debitore venne a gettarlesi ai piedi, con le mani in testa, perché gli evitasse l’ultima rovina, e le offrì, tra le sue proprietà, quella che più le piaceva. Donna Ferdinanda le buttò per terra, piene com’erano d’iscrizioni, capaci di attirarle addosso un diluvio di carta bollata, e poiché l’altro insisteva, e le offriva la casa netta d’ipoteche, la zitellona torse il grifo, dicendo: «Se ne può parlare.» Ma ella pretendeva di averla per le sue mille e cent’onze, capitale, interesse e spese, senza metter fuori un carlino di più, mentre il proprietario la stimava duemila onze, per lo meno, e pretendeva il resto. La cosa andò a monte; donna Ferdinanda spinse avanti la procedura. L’altro, con l’acqua alla gola, spremuto dal figliuolo che da Torino chiedeva sempre quattrini, vessato dal governo per motivo del giovane esiliato, chinò finalmente il capo. «Almeno faccia lei le spese dell’atto,» le mandò a dire; ma donna Ferdinanda: «Mille e cent’onze: ho una parola sola!» Così ella ebbe la casa. Era piccola, naturalmente, per quel prezzo: due botteghe fiancheggianti il portone, e un piano solo, sopra, con un balcone grande e due piccoli, nella facciata; ma aveva un valore inestimabile agli occhi di donna Ferdinanda; era posta ai Crociferi, che era il vecchio quartiere della nobiltà cittadina, ed essa stessa era una casa nobile, appartenendo da tempo ai Calasaro, signori della «mastra antica».
Oltre quella dei quattrini, la zitellona aveva infatti la passione della vanità nobiliare. Tutti gli Uzeda erano gloriosi della magnifica origine della loro schiatta; donna Ferdinanda ne era ammalata. Quando ella parlava di «don Ramon de Uzeda y de Zuellos, que fue señor de Esterel», e venne di Spagna col Re Pietro d’Aragona a «fondarsi» in Sicilia; quando enumerava tutti i suoi antenati e discendenti «promossi ai sommi carichi del Regno»: don Jaime i «che servì al Re don Ferdinando, figlio dell’imperator don Alfonso, contra ai mori di Cordova nel campo di Calatrava»; Gagliardetto, «caballero de mucha qualitad»; Attardo, «cavaliero spiritoso, ed armigero»; il grande Consalvo «Vicario della Reina Bianca»; il grandissimo Lopez Ximenes «Viceré dell’invitto Carlo v»; allora i suoi occhietti lucevano più dei carlini di nuovo conio, le sue guance magre e scialbe s’accendevano. Indifferente a tutto fuorché ai suoi quattrini, incapace di commoversi per qualunque avvenimento o lieto o triste, ella s’appassionava unicamente alle memorie dei fasti degli antenati. V’era in casa, ai tempi di suo nonno, una bella libreria; ma, quando il principe Giacomo xiii cominciò a navigare in cattive acque, fu venduta prima di tutto; ella salvò una copia del famoso Mugnòs, Teatro genologico di Sicilia, dove il capitolo «della famiglia de Vzeda» era il più lungo, occupando non meno di trenta grandi pagine. E quelle pagine secche e ingiallite, esalanti il tanfo delle vecchie carte, stampate con caratteri sgraziati ed oscuri, con ortografia fantastica; quella enfatica e bolsa prosa siculo-spagnola secentesca era la sua lettura prediletta, l’unico pascolo della sua immaginazione; il suo romanzo, il vangelo che le serviva a riconoscere gli eletti tra la turba, i veri nobili tra la plebe degli ignobili e la «gramigna» dei nobili falsi. «Chiaramente per tutti gli Hifpani genologifti fi fcorge, coi suoi felici fucceffi e con le occasioni debbite, qvale vna delle più antiche e fublimi famiglie delli regni di Valenza e d’Aragona la famiglia Vzeda, e per tvtto è uolgato effer ella fiffatamente cognominata dal nome, di vna fva terra detta la baronia di Vzeda, qvale alcanzò da qvei Re, in ricompenfo dei fvoi feruigi et indi coi Trionfi della militia nel Svpremo Cielo delle glorie militari peruenne.» Questo stile era d’una suprema eleganza, d’una straordinaria magnificenza per donna Ferdinanda, la quale leggeva letteralmente uolgato, peruenne e faceva già troppo, poiché essendo una «porcheria» per le donne della sua casta, al principio del secolo, sapere di lettere, ella aveva appreso a legger da sé, pei bisogni delle sue speculazioni.
Ora, con questo infatuamento della zitellona per la propria eccelsa origine e per l’istituzione della nobiltà in generale, la principessa pensò di dar per moglie a Raimondo, chi? Una Palmi di Milazzo, la figliuola d’un barone «da dieci scudi» del quale il Mugnòs non faceva e non poteva fare la più lontana menzione! Gloriavasi, questo «barone» Palmi, di certi privilegi di centocinquant’anni addietro; ma che erano centocinquant’anni paragonati ai secoli di nobiltà degli Uzeda? Senza contare che di questi privilegi non parlava neppure il marchese di Villabianca, autore fiorito nientemeno che un secolo dopo il Mugnòs!… La principessa, a cui la nobiltà stava a cuore, se non quanto a donna Ferdinanda, certo moltissimo, aveva giudicato invece sufficienti e fors’anche soverchi quei centocinquant’anni dei Palmi, giusto perché, volendo che la moglie del suo Raimondo fosse sottomessa dinanzi al beniamino come una schiava dinanzi al padrone, e che egli potesse trattarla d’alto in basso e farne quel che gli piaceva, aveva perfino pensato un momento di sceglier per lui l’umile figliuola di qualche ricco fattore… Il dissidio fu quindi violento. Già donna Ferdinanda, acquistato lo stabile