I Vicere. Federico De Roberto

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I Vicere - Federico De Roberto

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aveva fatto il principe: una a favore di Baldassarre e l’altra del signor Marco. Baldassarre, figliuolo d’una antica cameriera, allevato al palazzo e assunto giovanissimo all’ufficio di maestro di casa, sapeva fin da bambino il debole della famiglia, le rivalità, le avversioni e le manìe; aveva perciò badato esclusivamente al proprio servizio lodando tutti i padroni checché facessero o dicessero, tenendo in riga i suoi dipendenti che osavano mormorare dell’uno o dell’altro. Pertanto madre e figlio l’avevano ben visto entrambi, e il legato della principessa non gli procurava il congedo del principe. Quanto al signor Marco, lancia spezzata della morta, molti si meravigliavano che il figlio, da due mesi capo della casa, non se ne fosse ancora sbarazzato. Veramente, fin da quando la principessa era caduta inferma, l’amministratore aveva mutato tattica, prendendo con le buone il padrone nella previsione di doverlo presto servire; morta la madre, se non gli aveva proprio lasciato rubare il numerario, come diceva don Blasco, gli si umiliava certamente in tutti modi. Del resto, un procuratore come lui, che conosceva la casa da quindici anni, che sapeva le condizioni delle proprietà e lo stato delle liti, non si poteva surrogare da un momento all’altro.

      «Non si mangia più?… Che fate?… Voglio vedere!… Perché non allestite?… A me!»

      In cucina, tolto di mano a Luciano, il credenziere, un coltello che questi stava nettando, il principino continuò egli stesso l’operazione.

      «Vostra Eccellenza, che fa mai!…» Il nuovo cuoco, monsù Martino, non sapeva come prenderlo. «Se ne vada di sopra, ci lasci lavorare.»

      «Lèvati di torno! Voglio far io!»

      Bisognava lasciarlo fare. Se lo contrariavano, diventava una furia: digrignava i denti, gridava come un ossesso, rovesciava quanto gli capitava fra le mani. In verità il principe educava severamente il figliuolo, non gliene passava nessuna liscia; ma, da un’altra parte, non scherzava neppure con le persone di servizio se queste, messe con le spalle al muro e perduta la pazienza, rispondevano male al padroncino. E giusto adesso, dopo la morte della principessa, il posto di cuoco, in casa Francalanza, era divenuto più importante di prima. Giacomo dava punti alla madre quanto a diffidenza e a vigilanza: teneva tutte le provviste sotto chiave, voleva conto delle cose più miserabili, degli avanzi, delle croste di pane; ma insomma la spesa giornaliera, non contando l’aumento per gli ospiti, era considerevole e il trattamento più lauto: mangiavano adesso quattro piatti; mentre ai tempi della madre se ne facevano tre per lei e per don Raimondo: gli altri dovevano contentarsi, nei giorni ordinari, d’una minestra e d’un po’ di carne o di pesce. Anche quando Giacomo era diventato ricco della dote della moglie, la principessa, facendosi dare dal figlio la sua parte di spesa, aveva continuato a ordinare a modo suo, e il principe, fedele al proposito di mostrarlesi obbediente, era rimasto zitto. Così pure egli non aveva potuto eseguire nel palazzo le modificazioni da lungo tempo disegnate; morta donna Teresa, prese finalmente le redini della casa, metteva ora ogni cosa sossopra. S’udivano fino in cucina i colpi di piccone dei muratori, il cigolìo delle carrucole con le quali issavano i materiali dalla corte al piano di sopra; e i guatteri, occupati ad affettar patate e a sbatter uova, scambiavano fra loro osservazioni su quei lavori:

      «Levano la scala dell’amministrazione per guadagnare spazio…»

      «Io non avrei chiuso un pezzo della terrazza.»

      «Il padrone però deve dar conto a suo fratello, essendo eredi tutt’e due.»

      «Ma il palazzo è del principe! Il contino ha un solo quartiere…»

      Il principino adesso non perdeva una parola del discorso.

      «Il contino scapperà subito fuori via… Non è fatto per star qui…»

      Il lavoro delle salse li faceva tacere tratto tratto. Luciano, con una strizzatina d’occhio, disse dopo un pezzo al compagno:

      «Ricomincia, eh?»

      «Lascialo fare! Quello è un vero signore!»

      E Luciano chinò il capo, in segno d’approvazione ammirativa. Erano tutti pel conte, in cucina, come nelle anticamere, come nelle scuderie; perché il padrone giovane non rassomigliava al maggiore, tanto era dolce di comando e largo di mano.

      «Signore davvero, di modi e di pensieri. Non come l’amico…»

      «L’amico è volpe vecchia… com’era l’amica…»

      «Che dite?» domandò il principino.

      «Niente, Eccellenza!» rispose il cuoco; e vòlto ai dipendenti: «Lavorate!» ingiunse, «senza tante ciarle…»

      «Ah, non vuoi dirmelo?»

      «Ma che cosa, Eccellenza, se parlano così, a vanvera?»

      «Ah, non vuoi dirmelo?»

      A un tratto, udendo la carrozza che entrava nel cortile, Consalvo scappò a vedere.

      Tornavano finalmente le zie Lucrezia e Matilde andate alla badìa di San Placido. Il ragazzo, dimenticati la cucina e il cuoco, corse a raggiungerle di sopra, nella camera della madre, per vedere se gli portavano nulla.

      La contessa Matilde gli diede infatti un cartoccio di dolci; ma la zia Lucrezia neppure gli badò, con tanta animazione teneva un discorso alla principessa:

      «Piangeva, capisci!… Abbiamo voluto parlare con la Badessa, che ci ha confermato ogni cosa; è vero, Matilde?… Che modo è questo!… Le messe per nostra madre…»

      «Sst…»

      La principessa fece un segno alla cognata di tacere, per riguardo del ragazzo.

      «Mamma, oggi non si mangia più?…» domandò costui.

      «Se tuo padre non è ancora venuto!… Va’, va’ a vedere se arriva.»

      Il principino comprese che lo mandavano via. A sei anni, era curioso più di don Blasco. I maneggi dello zio monaco, il continuo complottare che si faceva in quella casa, avevano destato di buon’ora la sua attenzione: dopo la morte della nonna, s’accorgeva, dal contegno dei parenti, dai discorsi dei servi, che l’avevano con suo padre, chi per una ragione e chi per un’altra, ma che nessuno ardiva prendersela direttamente con lui. Egli comprendeva tante altre cose: che la zia Ferdinanda non poteva soffrire la zia Matilde; che tra questa e suo marito c’erano dissapori: comprendeva e taceva, fingendo di non accorgersi di nulla, per non incorrere nella collera di nessuno. Infatti, lo zio don Blasco dava solenni scappellotti, la zia Lucrezia giocava anche lei a pizzicargli il braccio, specialmente quando egli andava a rovistarle la camera; ma specialmente suo padre, sempre burbero, gliene dava, alle volte, di quelle che radevano il pelo. Pertanto egli non se la diceva molto con lui, mentre invece non poteva stare lontano dalla mamma. Donna Ferdinanda, veramente, gli usava molte preferenze; ma nessuno come la principessa scusava i difetti del monello. Rabbrividendo, cadendo in convulsione se qualcuno le si metteva troppo dappresso, ella vinceva la manìa dell’isolamento soltanto per amore dei figli, si stringeva al petto e baciava furiosamente il suo Consalvo anche quanto non era troppo netto, e con tanto maggior impeto quando più si difendeva da ogni altro contatto. Da un pezzo, nata la sorellina Teresa, le carezze non erano tutte per lui; nondimeno, solo la principessa riusciva ad ottenere qualche cosa da Consalvo con le buone, per amore.

      «Va’, va’ a vedere se il babbo è tornato…»

      Il principe Giacomo rientrava in quel momento. Aveva una ciera più aggrottata del solito, e neppure salutò, entrando; Lucrezia ammutolì, alla sua vista. Egli domandò se il duca era rincasato, e udendo che no, diede ordine che servissero in tavola appena giunto lo zio. Poi se ne andò a chiudersi nel suo scrittoio

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