I Vicere. Federico De Roberto
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«I russi resistono ancora… un osso duro da rodere… Napoleone ne seppe qualcosa…»
Di nuovo assorta in pensieri più gravi e molesti, ella udiva brani di frasi, parole di cui non afferrava il senso. Da quanto tempo la lasciava sola, Raimondo! Da quanto, da quanto!… Ella rammentava assiduamente la prima pena che le aveva inflitta, tanto tempo addietro. Buono con lei nei primi tempi del matrimonio, durante il viaggio di nozze ed il soggiorno di Catania, appena giunto a Milazzo dove erano andati per affari, per vedere il padre e la sorella di lei, egli aveva dichiarato di non aver preso moglie per vivere in quella bicocca, per incappare nella tutela del suocero dopo essere uscito da quella della madre. Certo, ella non credeva che la vita nella sua cittadella natale potesse allettarlo molto; certo, lo avrebbe seguito dovunque gli sarebbe piaciuto condurla; nondimeno quel brusco giudizio intorno a cose e persone care al cuor suo le aveva procurato un senso d’angustia indimenticabile. Egli voleva lasciare per sempre la Sicilia, andarsene a vivere a Firenze; né la contraria volontà della madre gli era d’ostacolo; alla moglie, che per non discostarsi troppo dai suoi gliela rammentava esortandolo ad obbedirla, rispondeva bruscamente: «Lasciami fare a modo mio.» Ed ella, sì, aveva riconosciuto le sue ragioni. La Sicilia, la Toscana, qualunque parte del mondo dove sarebbero stati insieme felici, non doveva esser tutt’uno per lei? Il dispotico divieto della suocera poteva avere maggior peso per lei del desiderio del marito? E quel desiderio non era forse legittimo; il suo Raimondo non era chiamato a figurare in mezzo alla società più eletta di una grande città? Giovani e ricchi, non sarebbero stati dovunque segno dell’invidia di tutti?… Ed ella non aveva perseverato nei tentativi di resistenza anche per un’altra ragione, più grave. Raimondo, del quale perdonava, anzi voleva ignorare i modi un po’ bruschi, l’insofferenza della contraddizione, tutti i piccoli difetti di un figliuolo troppo vezzeggiato, si mostrava qual era anche col suocero. Il carattere di costui essendo pure molto forte, un dissenso poteva sorgere da un momento all’altro. Sulle prime, il barone aveva fatto una vera festa al genero, trattandolo quasi come la principessa, sedotto anche lui dalla grazia fine del giovane, inorgoglito dalla fortuna di essersi imparentato coi Francalanza; ma Raimondo aveva risposto a tante prevenzioni zelanti, a tante cure affettuose mostrandosi malcontento di tutto, in quella casa, ripeteva ogni quarto d’ora: «Come si fa a vivere qui?…» Il barone aveva da lui la procura per amministrare le proprietà date alla figlia, e in questa amministrazione intendeva seguire i criteri e i sistemi antichi, dei quali sapeva la bontà; Raimondo invece, per occupar gli ozi di Milazzo, quando non passava le intere giornate giocando al casino con gli scapati presto conosciuti, si faceva render conto dal suocero dei suoi provvedimenti, per biasimarli, per suggerir quelli che, a suo giudizio, bisognava adottare. In questa materia, egli dimostrava un’assoluta ignoranza degli affari, una stravaganza di concetti molto simile a quella del fratello Ferdinando: il barone ne rideva, egli se l’aveva a male. Le parti s’invertivano quando il barone gli chiedeva conto dell’impiego dei capitali dotali: allora egli biasimava certe operazioni bislacche del genero, e questi dichiarava al suocero che non ci capiva nulla. Spesso, in quei dibattiti, alle uscite vivaci di Raimondo il barone faceva un visibile sforzo per contenersi, per non dargli sulla voce; allora Matilde interveniva, mutava soggetto al discorso, componendo il lieve screzio coi sorrisi prodigati egualmente alle due persone che più amava al mondo. Il suo grande dolore fu perciò nell’accorgersi che, se voleva vederle in pace, le conveniva evitare che stessero a lungo insieme. Decisa così a secondare il desiderio del marito, ella lo aveva seguito a Firenze, ma quest’ultima risoluzione di Raimondo era stata causa della più viva opposizione del barone che voleva vicina la figlia e, giudicando troppo costosa la stabile dimora in una grande città, consigliava piuttosto brevi viaggi. Raimondo gli aveva risposto seccamente che quel consiglio era stupido, perché i viaggi appunto costano un occhio del capo; e lasciando in asso il suocero aveva dichiarato alla moglie, con brutte parole, troppo dure, ingiuste anche, di non voler più soffrire l’ingerenza di lui negli affari propri. Allora, per vincere l’opposizione del padre, ella aveva dovuto ricorrere all’espediente di cui s’era avvalsa tante volte, bambina: dirgli che il disegno di vivere un pezzo in Toscana era caro a lei stessa e pregarlo di farla contenta!…
«Quattrini e vite sprecate!… La guerra a tanta distanza…»
Mentre il duca continuava a sviscerare la questione d’Oriente ed a proporre combinazioni diplomatiche, tutti si volsero verso l’uscio d’entrata. La contessa sussultò, sperando che fosse suo marito; s’avanzava invece cerimoniosamente don Cono Canalà: «Sia pro a ciascuno!… Ma non veggio il contino?…» Così, così a Firenze, in una città dove, non che un parente, non aveva da principio neppure una conoscenza, ella era rimasta lunghissime ore, tanti e tanti giorni ad aspettarlo invano. Lì aveva pianto le sue prime lacrime, quando s’era vista trascurata; lì s’era nascosta per piangere, giacché egli o la derideva per quella «stupida» affezione, o dichiarava di non voler essere «seccato»… Avevano un modo radicalmente diverso d’intendere la vita: mentre ella metteva innanzi tutto l’affetto di suo marito e le gioie della famiglia, e non desiderava se non prolungare al fianco di Raimondo, sia pure in altri luoghi, l’ineffabile felicità domestica provata da fanciulla; il giovane viziato dalle preferenze della madre e finalmente uscito dalla sua ferrea tutela, aspirava unicamente ai liberi piaceri mondani. E per questo, dicendo a se stessa che egli aveva il diritto di divertirsi, che non faceva poi nulla di male, che i gusti delle persone sono naturalmente diversi, ella aveva represso il proprio dolore, si era persuasa del proprio torto. Quasi premio di questa sua rassegnazione, aveva finalmente provato le ineffabili gioie della maternità, e allora, come per incanto i tempi felici della luna di miele parve tornassero, tra perché Raimondo divenne veramente migliore, tra perché ella stessa, assorta in soavi pensieri, in cure minute, pose meno mente alla vita di lui. Al padre, che la raggiunse in quell’occasione, ella poté mostrare un viso raggiante di gioia; felice con lei, il barone dimenticò interamente le piccole liti avute col genero, tornò a volergli bene come ai primi tempi… Tutti aspettavano un maschio, tranne lei stessa che, se avesse osato contrastare i desideri altrui e far differenze tra i figli, avrebbe preferita una bambina. Una bambina nacque infatti, e quando si trattò di battezzarla, quantunque ella e il padre avessero desiderato chiamarla come la loro cara perduta, riconobbero tuttavia la convenienza di darle il nome della principessa. Rammentava forse più la madre felice i trattamenti sgraziati della suocera e della parentela? Quell’angioletto venuto a ristringere il nodo che la univa a Raimondo, a dissipare le nubi che minacciavano il suo bel cielo, non parlava unicamente di pace e d’amore?… Ahimè! Più presto che non credesse ella s’era accorta del proprio inganno. Già da quando erano venuti a Firenze, la suocera non le aveva più scritto, né risposto alle sue lettere, né accennato a lei nelle lettere che mandava al figliuolo. Il silenzio continuò durante la gravidanza, e dopo il parto comprese anche la bambina. Quando Teresina fu svezzata, Raimondo deliberò di fare una corsa in Sicilia; e da quel viaggio ella ripromettevasi la fine dell’incomprensibile rancore della principessa; invece, ella ricominciò a piangere allora… Donna Teresa Uzeda, non potendo prendersela con Raimondo per il trasferimento nella remota Toscana, ne aveva rovesciato la colpa sulla nuora; la sua gelosia e il suo odio si erano raddoppiati, le facevano una colpa perfino della nascita della bambina!… Come dimostrare a quella spietata il suo torto? Come persuaderla che suo figlio, contro il piacere di tutti, aveva voluto a forza fare quel che si era proposto? Ingenuamente, il barone non aveva detto che Raimondo era andato a Firenze per far piacere a Matilde?… Ella aveva così apprestato, senza saperlo, una nuova arma alla suocera; per ottenere l’accordo fra il marito ed il padre, aveva scatenato quella furia contro se stessa…
«La zia di Vostra Eccellenza!»
Annunziata dal maestro di casa, mentre il desinare stava per finire, entrava adesso donna Ferdinanda. Tranne il duca, tutti si levarono; la contessa con gli altri; ma la zitellona salutò tutti fuorché quest’ultima. Pochi minuti dopo sopravvenne don Blasco che per tutto saluto disse: «Ancora a tavola?» e non parve neppure accorgersi di Matilde… Che era mai, pensava ella, la ostentata trascuranza di costoro, a paragone