I Vicere. Federico De Roberto

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I Vicere - Federico De Roberto

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poi troppo… E il peggio è di non poter sapere fin dove si estende il marcio! E questa è la famosa amministrazione di cui abbiamo sentito tante lodi… Ma dice che dei morti non si deve parlare… e basta!… Ora io ho voluto informare Vostra Eccellenza, prima di tutto perché era questo il mio dovere; secondariamente perché Vostra Eccellenza ne tenga parola a Raimondo. Se questi debiti hanno da pagarsi, e purtroppo c’è poca speranza del contrario, a ciascuno bisogna imputarne la sua parte. Io vorrei anche pregare Vostra Eccellenza di avvisare gli altri, perché sappiano che i loro legati saranno anch’essi gravati in proporzione…»

      Il duca ricominciò a scrollare il capo, ma con espressione diversa. I legatari lagnavansi d’aver avuto troppo poco; adesso bisognava dir loro che avevano anche meno!

      «Perché non parli loro tu stesso?» suggerì al nipote.

      «Perché?» rispose il principe, col leggiero fastidio di chi ode rivolgersi una domanda oziosa. «E non sa Vostra Eccellenza come sono, qui in casa? Chiusi, sospettosi, diffidenti? Crede Vostra Eccellenza che io non mi sia accorto di certi maneggi, che non abbia udito certe accuse sorde sorde?… Pare che l’abbiano tutti con me, specialmente quella testa pazza di Lucrezia!… Anche oggi non ha fatto una scena?…»

      «No, no…» interruppe il duca; «al contrario, t’assicuro. Si lagnava anzi del contrario, che tu l’abbia con lei, che non le parli mai…»

      «Io? E perché dovrei averla con lei?… Non ho parlato molto in questi giorni, è vero: ma come vuole Vostra Eccellenza che avessi voglia di parlare, con queste belle notizie? Perché dovrei averla con lei, o con altri? Io ho pensato sempre ed ho detto che la cosa principale, nelle famiglie, è la pace, l’unione, l’accordo!… È colpa mia se questo non fu possibile finché visse nostra madre? Vostra Eccellenza sa come fui trattato… meglio, molto meglio non parlarne!… Adesso, quantunque io sia stato spogliato, mi hanno udito esprimere una sola lagnanza? Ho detto primo di tutti: la volontà di nostra madre sarà legge! Invece, che cosa s’è visto? Mutrie a destra e a sinistra, Raimondo che non vuole occuparsi d’affari quasi per punirmi d’avergli preso mezza eredità…»

      «No, per spassarsi…» corresse il duca.

      «Lo zio don Blasco,» proseguì il principe, quasi non udendo l’osservazione, «che ho sempre trattato con rispetto e deferenza, come tutti gli altri, istigare contro di me i legatari…»

      «Quello è un pazzo!…»

      «O gli altri, dica Vostra Eccellenza, sono forse savi? Che vogliono, che pretendono? Di che m’accusano? Perché non vengono a dire le loro ragioni? Lucrezia ha parlato oggi con Vostra Eccellenza; sentiamo: che ha detto?…»

      Quantunque deciso a non mantenere la promessa fatta qualche ora prima alla nipote, il duca, costretto dalla domanda, rispose, con un sorrisetto, per temperare quel che vi poteva essere di poco gradito nelle sue parole:

      «Tu ti lagni d’esser stato spogliato; e invece spogliati si credono essi…»

      Il principe rispose, con un sorriso più amaro del primo:

      «Proprio, eh?… E come, perché?»

      «Perché avrebbero avuto meno di quel che gli spetta… perché c’è la parte di vostro padre…»

      Giacomo s’accigliò un momento, poi proruppe, con mal contenuta violenza:

      «Allora perché accettano il testamento? Perché non chiedono i conti? Mi faranno un piacere! Mi renderanno un servizio!»

      «Tanto meglio, allora…»

      «Che cosa credono che sia l’eredità di nostra madre? Facciamo i conti, sissignore; facciamoli domani, facciamoli oggi! Anzi, perché non si rivolgono ai magistrati?…»

      «Che c’entra questo?»

      «M’intentino una lite! Facciamo ciarlare il paese, diamo questo bell’esempio d’amor fraterno! Raimondo s’unisca a loro; mi accusino di aver carpito il testamento, ah! ah! ah!… Sono capaci di pensarlo! Conosco i miei polli, non dubiti! Questo è il frutto dell’educazione impartita qui dentro, degli esempi che hanno dato, della diffidenza e del gesuitismo eretti a sistema…»

      Era veramente concitato, parlava violentemente, aveva perduto la solenne compostezza dell’esordio. Il duca, buttato via il sigaro spento, riprendeva a scrollare il capo, quasi riconoscendo che alla fine fine non poteva dargli torto per quelle ultime argomentazioni. Però, levatosi dalla poltrona, messa una mano sulla spalla del nipote:

      «Càlmati, andiamo!» esclamò. «Non esageriamo né da una parte né dall’altra. La roba è lì…»

      «Nessuno la tocca!»

      «Essi vogliono fare i conti, tu sei pronto a darli…»

      «Ora, all’istante!…»

      «E dunque l’accordo è immancabile. Farete questi conti, vedrete se la divisione di vostra madre è giusta o no; accomoderete tutto con le buone.»

      «Ora, all’istante!» ripeteva il principe seguendo lo zio che s’avviava. «Perché non hanno parlato prima? Non sono già lo Spirito Santo per potere indovinare ciò che mulinano nelle teste bislacche!»

      «C’è tempo! c’è tempo!…» ripeteva il duca, conciliante, senza far notare al nipote la contraddizione in cui cadeva, avendo prima asserito di saper dei complotti. «Non la pigliare così calda! Parlerò con Raimondo, poi con gli altri; la roba è lì; vedrete che non ci saranno quistioni… A proposito,» esclamò, giunto all’uscio e voltandosi indietro, «che cosa è l’affare della badìa?»

      «Qual affare?…» rispose il principe, stupito.

      «Il legato delle messe… Le mille onze che non vuoi dare ad Angiolina…»

      «Le mille onze? Io non voglio darle?…» esclamò allora Giacomo. «Ma non vede Vostra Eccellenza come sono tutti d’una razza, falsi e bugiardi? Io non le voglio dare? mentre invece il legato di nostra madre è nullo, perché importa l’istituzione d’un beneficio, e le istituzioni di beneficio non reggono quando manca l’approvazione sovrana?…»

      Nella Sala Gialla don Blasco rodevasi le unghie, sapendo quella bestia del fratello in confabulazione col nipote e non potendo udire i loro discorsi. Dalla contrarietà, stronfiava, spasseggiava in lungo e in largo, non udiva neppure quel che dicevano intorno a lui.

      Era arrivata la cugina Graziella, la quale cicalava con la principessa, con Lucrezia e con donna Ferdinanda; meno con Matilde, per mostrar di partecipare ai sentimenti degli Uzeda verso l’intrusa. Aveva creduto di poter entrare anche lei in casa Francalanza, la cugina; di prendersi anzi il primo posto, come moglie del principe Giacomo, ma l’opposizione della zia Teresa aveva trionfato di lei e del giovane. Invece che «principessa», s’era chiamata semplicemente «signora Carvano», ma quantunque il cugino, presa la moglie che la madre gli destinava, si fosse posto il cuore in pace e paresse perfino aver dimenticato che fra loro due c’erano state un tempo parole tenere, ella aveva continuato a fare all’amore, se non con lui, con la sua casa. C’era venuta assiduamente, aveva stretto amicizia con la principessa Margherita e indotto il marito a fare anche lui la corte agli Uzeda, e tenuto a battesimo Teresina e dimostrato in ogni modo e in tutte le occasioni che le antiche fallite speranze non potevano intepidire in lei l’affezione verso tutti i cugini. Durante la malattia e dopo la morte di donna Teresa, specialmente, donna Graziella era quasi diventata una persona della famiglia; tutti i giorni e tutte le sere a prender notizie, a prodigar conforti, a suggerir consigli, a rendersi utile con le parole e con le opere. La principessa

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