traditori una carta in cui s’invocava la pronta restaurazione del potere legittimo. Ai primi d’aprile, le compagnie della milizia siciliana che presidiavano Taormina sgombrarono all’apparire dei regi e ritornarono a Catania; il 7 Satriano entrò in città dopo un sanguinoso combattimento. Tutti gli Uzeda erano scappati alla Piana, il duca s’era barricato alla Pietra dell’Ovo perché era opinione generale che i napolitani si sarebbero presentati dalla parte opposta, cioé dalla via di Messina. Invece, essi spuntarono dalla strada del Bosco etneo, prendendo, dopo brevi zuffe, i posti della Ravanusa e della Barriera. Ora, giunto all’altezza della Pietra dell’Ovo, il generale borbonico entrò col suo stato maggiore nel podere degli Uzeda, dove il duca lo accolse come un padrone, come un salvatore, come un Dio, mentre i cannoni spazzavano la via Etnea, e le truppe regie, assalite alla Porta d’Aci dal disperato battaglione dei corsi, decimate a colpi di coltello, nell’ora triste del crepuscolo, da quel manipolo che si sentiva perduto, inferocivano e distruggevano fin all’ultimo quei mille uomini e sfogavano l’ira sulla inerme città… Amico di Satriano, protetto dalla firma posta a quell’atto di sottomissione che tra i liberali andò infamato col nome di Libro nero, protetto ancora più dal suo proprio nome, perché era impossibile che un Uzeda avesse potuto dire sul serio mettendosi coi rivoluzionari, il duca non solo non soffrì molestie di sorta nella reazione, ma fu anzi accarezzato. Invece, un sordo fermento si destò contro di lui nel partito dei vinti. Gli apponevano quella firma odiosa, ma più le accoglienze fatte a Satriano alla Pietra dell’Ovo. L’affare della firma era conosciuto da pochi, dai capi; la storia della Pietra dell’Ovo si diffuse tra i gregari e corse in mezzo al popolo; ciascuno v’aggiunse un po’ di frangia, arrivarono a narrare che mentre la città agonizzava, il duca guardava lo spettacolo col cannocchiale di Satriano; che all’entrata del conquistatore della città gli aveva cavalcato al fianco. Don Lorenzo Giulente, rimastogli amico, ebbe un bel difenderlo, smentire le esagerazioni, asserire che il duca, solo ed inerme, non poteva mandare indietro il generale seguito da un intero esercito: gli animi amareggiati dal disinganno chiedevano un capro espiatorio; e come Mieroslawski, il polacco comandante della polizia, era stato accusato di tradimento, così il rancore popolare si rovesciò sul duca, quantunque mille più di lui lo meritassero perché di lui più colpevoli. In fin dei conti, egli non aveva preso né gradi, né stipendi, né appalti dalla rivoluzione: era stato a vedere, aspettandone la riuscita; mentre tanti altri, dopo aver fatto gazzarra e il mangia-mangia, si buttavano ai piedi dell’Intendente e salutavano col cappello fino a terra nominando Sua Maestà Ferdinando ii «che Dio sempre feliciti!» Questo voleva dire il duca, in propria difesa; questo diceva Giulente; ma cantavano ai sordi, e il duca si vedeva segnato a dito, bollato col nome di traditore, insultato e fin minacciato da lettere anonime. Un giorno l’amico don Lorenzo gli consigliò di partire: solo la lontananza e il tempo potevano avere virtù di far sbollire quell’odio. Il duca non se lo fece dire due volte, e andò a Palermo. Lì, il partito d’azione, vinto egualmente, era tuttavia meno depresso: le speranze non erano morte o cominciavano a risorgere. Passata la paura che le ultime vicende gli avevano messa in corpo, rinatagli in cuore l’ambizione inappagata e mortificata, il duca prestò di nuovo orecchio alle sollecitazioni dei liberali, anche per dimostrare ai suoi cari concittadini che non meritava il loro disprezzo. E quantunque non s’allontanasse dalla consueta prudenza, e andasse ai conciliaboli rivoluzionari come ai ricevimenti del Luogotenente generale del Re, e tornasse insomma, con più prudenza, al giuoco di prima, arrivò tuttavia a Catania la voce che egli era nei comitati d’azione e in corrispondenza con gli emigrati, e che dava quattrini per la buona causa e che soccorreva i patriotti perseguitati. Oltre la voce, arrivarono anche i quattrini che egli mandava ai comitati locali, comprendendo finalmente che quella era la buona via; che uno come lui, senza fede e senza coraggio, non poteva far valere altri titoli se non i denari sonanti. E frattanto gli animi placati vedevano meglio, riconoscevano i maggiori colpevoli, rivolgevano contro costoro l’odio col quale avevano prima perseguitato il duca. Infine venne il matrimonio di Raimondo con la Palmi ad assicurargli nuove grazie. Egli aveva conosciuto il barone a Palermo, per mezzo degli agitatori che questi veniva a trovare da Milazzo, in barba alle autorità e col pretesto degli affari. Quando il duca seppe del matrimonio divisato dalla principessa, s’affrettò quindi non solamente ad approvarlo, ma anche ad offrirsi come mediatore, facendo valere l’amicizia che lo legava al barone. Egli sentiva che quell’alleanza del proprio nipote con la figlia dell’antico liberale non poteva se non favorirlo, aiutarlo a riacquistar credito presso la parte che aveva tradita. Quanto alla principessa, borbonica come tutti gli Uzeda, il liberalismo dei Palmi piuttosto che un ostacolo fu una ragione di più che le fece combinare quel matrimonio. Prima di tutto ella era borbonica d’istinto, ma non s’occupava di politica avendo altro da fare; poi, come le era piaciuto che la sposa non potesse vantare una eccelsa nobiltà, così vedeva bene che la famiglia di lei fosse perseguitata dal governo, affinché Raimondo potesse meglio imporsi, in tutti i modi, alla famiglia ed alla moglie.
Per le nozze del nipote, il duca tornò in patria. Erano passati appena due anni dai fatti che gli avevano valso l’odio dei suoi concittadini e già egli poté vedere gli effetti della lontananza e della sua nuova politica e dell’amicizia col barone Palmi e dell’adesione al matrimonio di Raimondo. Mentre don Blasco e donna Ferdinanda, in guerra a morte con la principessa, se la prendevano anche con lui per l’appoggio prestato alla cognata e per la politica che gli dettava quel contegno, e al colmo della rabbia lo vituperavano e per poco non lo denunziavano alle autorità pel suo liberalismo, e poi ne ridevano e quasi gli gettavano in faccia il tradimento del 1849, la firma del Libro nero, l’amicizia di Satriano; mentre suo fratello e sua sorella facevano ciò, molti di coloro che gli avevano tolto il saluto lo avvicinarono e gli strinsero la mano; altre paci furono facilmente suggellate per mezzo di Giulente; nessuno parve più rammentare le storie passate. Nondimeno, il duca ripartì, se ne tornò a Palermo, un poco perché aveva preso gusto a starci, ma anche per confermare quelle buone disposizioni.
Tornato in patria, adesso, per la morte della cognata, egli era accolto quasi in trionfo, la gente traeva a lui in processione. Non solo nessuno parlava più dei fatti del 1849, vecchi di sei anni; non solo egli era considerato come una delle speranze del partito; ma il lungo soggiorno alla capitale, la frequentazione dei maggiori uomini palermitani gli conferivano improvvisamente fama di grande dottrina. Egli citava le opinioni di Tizio e di Filano, celebri patriotti «amici miei» – come don Eugenio aveva per amici i più gran signori napolitani —; infarciva i suoi discorsi di citazioni erudite di seconda e di terza mano; riesponeva a modo suo, quasi pensate da lui, le teorie economiche e politiche di cui aveva avuto qualche sentore nelle conversazioni di Palermo: e la gente gli stava dinanzi a bocca aperta. Il patriotta, è vero, riceveva visite dall’Intendente e le restituiva, e non aveva scrupolo di mostrarsi in compagnia dei più ferventi borbonici; ma ciò non gli era posto più a debito: bisognava fingere con l’autorità per non destarne i sospetti, per comprenderne il giuoco. Egli dava quattrini, non lasciava andare a mani vuote chi gli chiedeva soccorsi. Don Blasco e donna Ferdinanda lo vituperavano pertanto, ciascuno da canto suo, con più grande violenza di prima; egli li lasciava cantare, seguitava a giocare sulla carta della libertà come il monaco sopra i numeri del lotto e la zitellona sul credito della gente.
Come in politica si teneva bene con tutti, così in casa non parteggiava più per uno che per l’altro. Vedeva l’armeggio di don Blasco per sollevare i nipoti defraudati, sapeva le ragioni che militavano per essi; ma vedeva ancora la ciera accigliata del principe, udiva le sue amare lagnanze pel «tradimento» che gli aveva fatto la madre: perciò stava al bivio, dava ragione un po’ a tutti: al principe che gli offriva ospitalità e lo trattava con deferenza, a Lucrezia che amando e sposando il nipote del cospiratore Giulente, lo avrebbe aiutato ad entrar meglio nelle grazie dei liberali.
4
«Oggi non si mangia?»
Il principino moriva di fame. Da un pezzo l’ora del desinare non arrivava mai: un po’ mancava il duca, un po’ Raimondo, un po’ lo stesso principe; quel giorno eran fuori tutti e tre, più Lucrezia e Matilde. E il ragazzo era la disperazione di tutta la casa: correva su e giù dalla cucina alla scuderia, dalle stalle al giardino, inquietava la servitù vecchia e nuova intenta al lavoro. Come don Blasco aveva annunziato al Babbeo, tutti i servi protetti dalla principessa erano stati