I Vicere. Federico De Roberto
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Quel disinteresse, quel rispetto da lui dimostrato verso casa Uzeda, accrescevano la devozione e l’ammirazione di Chiara, la facevano uniformare ai suoi desideri con tanto maggior zelo, quanto che, giusto in quei giorni, votatasi per consiglio della Badessa di San Placido al miracoloso San Francesco di Paola, ella aveva di nuovo la speranza d’essere incinta. Così, per difendere il marito da quella mosca cavallina di don Blasco, teneva fronte lei stessa allo zio, gli diceva:
«Sì, va bene; Vostra Eccellenza ha ragione, parla per amor nostro; ma il rispetto alla volontà di nostra madre…»
«Tua madre era una bestia,» gridava il monaco, «più di te!… Qual è stata la volontà di tua madre? Quella di rovinarvi tutti per amore di Raimondo e per odio di Giacomo! Pazza tu e lei! Manata di pazzi tutti quanti!…» E montando più in bestia per le moine che marito e moglie si facevano tutto il giorno, specialmente all’ora del desinare, quando si servivano reciprocamente come in piena luna di miele e s’imbeccavano al pari di due colombi, il monaco scoppiava: «Io non so veramente chi è più bestia, fra voi due!..»
Tanto che una volta Chiara, presolo a parte, protestò:
«Vostra Eccellenza mi dica quel che le piace, ma non tocchi Federico. Non tollero che se ne parli male»
«Che tolleri e talleri mi vai contando?» proruppe il monaco di rimando. «O credi che la gente abbia dimenticato che prima non lo volevi neanche per cacio bacato e minacciavi piuttosto di lasciarti morire che sposar quel cocomero?…»
Così la nipote voltò le spalle allo zio; questi mandò a farsi friggere la nipote e non mise più piede in casa di lei, dandosi ad altissima voce del triplice minchione per lo stupido interesse portato verso quel paio di animali. Ma erano giuramenti da marinaio; egli non poteva rassegnarsi a star zitto, gli coceva troppo che la volontà della morta si compisse: e allora, aspettando un’occasione per tornare alla carica contro quelle bestie, cominciò a prendersela con Ferdinando.
A qualunque ora andasse a cercarlo, lassù, alla Pietra dell’Ovo, lo trovava, sempre solo, con la pialla o con la sega o con la zappa in mano, intento a lavorar da stipettaio o da giardiniere, in maniche di camicia, come un operaio o un contadino. Da bambino era stato così, Ferdinando: taciturno, timido, mezzo selvaggio per la mala grazia con cui lo aveva trattato sua madre, costretto a svagarsi da solo, come meglio poteva, poiché non gli toccava il regalo del più povero balocco. Era cresciuto quasi da sé, ingegnandosi a procacciarsi quel che gli bisognava, a cavarsi d’impiccio. Quando gli altri andavano a spasso, egli restava in casa, a sfasciar scatole di legno o di cartone per farne teatrini o altarini o casucce che regalava poi a chi glieli chiedeva, a Lucrezia specialmente, per la quale, come per una compagna di destino, sentiva molta affezione; e se talvolta lo cercavano perché c’eran visite, perché qualche parente voleva vederlo, egli scappava, si rintanava in certi pertugi dove nessuno riusciva a trovarlo, o si rifugiava nella bottega dell’orologiaio, suo grande amico, dal quale facevasi insegnar l’arte. Un giorno, per San Ferdinando, don Cono Canalà gli regalò il Robinson Crusoe; egli lo divorò da cima a fondo e restò sbalordito dalla lettura come da una rivelazione. Da quel momento la sua selvatichezza s’accrebbe; il suo unico e costante desiderio fu quello di naufragare in un’isola deserta e di provveder da sé al proprio sostentamento. Cominciò allora a fare esperimenti di coltura nel giardino e nella terrazza del palazzo, e gli venne il gusto della campagna, che la principessa assecondò. Gli aveva messo il soprannome di Babbeo per quelle sue sciocche manìe; ma comprendendo che favorivano i propri piani gli abbandonò, alla Pietra dell’Ovo, prima la brulla chiusa delle ginestre e dei fichi d’India, poi col tempo, maturando il suo piano della generale spogliazione a favore del primogenito e di Raimondo, tutto il podere, stipulando però un contratto in piena regola, col quale il figliuolo obbligavasi di pagarle cinquecent’onze l’anno sui frutti del fondo, restando a lui tutto il di più. Il contratto per donna Teresa fu un affare: innanzi tutto ella risparmiò le trentasei onze annue del fattore, giacché Ferdinando andò subito subito a stabilirsi lì per coltivare da sé l’isola che aveva acquistata; e poi assicurossi una rendita che il podere non dava. Il Babbeo faceva assegnamento sulle bonifiche per pagare le cinquecent’onze alla madre e restar padrone dell’avanzo; infatti, appena entrato in possesso, cominciò a dissodare, a scavar pozzi, a strappar mandorli per piantar limoni, a sbarbicar la vigna per ripiantarci i mandorli, a sbizzarrirsi in una parola come aveva sognato. Il suo piacere, veramente, sarebbe stato più grande se avesse potuto far tutto da solo; ma costretto a chiamar zappatori e giardinieri, egli stesso lavorava con loro, a strappar erbacce, a portar via corbelli di sassi, a rimondar alberi, facendo anche da falegname, da muratore e da decoratore, perché una delle sue prime occupazioni era stata quella d’ingrandire ed abbellire la vecchia casa del fattore. Egli era felice facendo la vita dell’eroe che gli aveva acceso la fantasia, come se veramente fosse in un’isola deserta, a mille miglia dal mondo. Dormiva sopra una specie di cuccetta da marinaio, costruiva da sé tavole e seggiole, e la casa pareva un arsenale dalla tanta roba che v’era sparsa; seghe, pialle, trapani, pulegge, zappe, picconi; e poi un assortimento di assi e di travi, e sacchi di farina per fare il pane, provviste di polvere, una scansìa di libri, tutta la roba che un naufrago può salvare dalla nave prima che questa si sfasci.
Fin dal primo anno, però, egli non aveva potuto pagare interamente la rendita promessa alla madre; restò a dargliene una buona metà che la principessa notò regolarmente a suo debito. Poi, a furia di mutar colture, di porre in atto le novità di cui udiva parlare o che leggeva nei trattati d’agricoltura o che speculava da sé, il frutto del podere gli si venne sempre più assottigliando tra mano. Colpa dei mercenari, diceva, che non eseguivano bene i suoi ordini, o dello scombussolamento delle stagioni; ma la madre lo canzonava, a posta, per incaponirlo in quella sua manìa, e vi riesciva a meraviglia. E il frutto delle Ghiande scemava sempre più, non arrivava neppure alle cent’onze, nonostante che ad esclusione degli strumenti e di qualche libro egli non spendesse nulla per sé e mangiasse frugalmente i prodotti dell’orto e della caccia e le rare volte che compariva al palazzo scandalizzasse perfino i servi, tanto era stracciato e unto e goffo nei panni vecchi di anni ed anni. Ma la principessa, deridendolo, lo lasciava fare, e segnava una dopo l’altra nel libro dell’avere tutte le somme che ogni anno egli le dava in meno. Esse formavano già un discreto capitale che il Babbeo non sapeva dove prendere; il suo continuo timore era perciò che la madre, stanca di non vedersi pagata, gli togliesse di mano il podere; e infatti la principessa più d’una volta lo aveva minacciato di questo. Il colpo maestro di costei, nel testamento, fu dunque l’assegnazione delle Ghiande a Ferdinando. Per lui quella proprietà valeva più d’un feudo; a scambiarla per tutta l’eredità dei fratelli maggiori temeva di rimetterci. Come se non bastasse, c’era anche il condono degli arretrati che sommavano ormai a mille e cinquecento onze; talché, al colmo della soddisfazione, egli si credette trattato benissimo, oltre ogni speranza, e a don Blasco, il quale gli si metteva alle costole per indurlo a ribellarsi:
«Come?» diceva, candidamente, lasciando di piallare o di rimondare. «Non è abbastanza quello che ho avuto?»
«Ma