I Vicere. Federico De Roberto
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Il barone di Risà di Niscemi, padre della sposa, era venuto a Catania dall’interno dell’isola per dar marito alle due uniche sue figliuole, alle quali, da principio, voleva spartire egualmente le sue grandi ricchezze; ma quando la maggiore, Teresa, fu proposta al principe di Mirabella, futuro principe di Francalanza, gli Uzeda gli fecero intendere che, quantunque falliti, essi non avrebbero dato Consalvo vii alla figlia d’un semplice barone contadino, se costei non avesse colmato coi quattrini la distanza che la separava da un discendente dei Viceré. Tanto il barone che la ragazza riconobbero che questo era giusto; però, dando il padre quattrocentomila onze, cioè quasi tutto a Teresa e spogliando la minore Filomena che trovò poi per caso da maritarsi col cavaliere Vita e restò sempre in freddo con la sorella, pretese, d’accordo con la figliuola, che il matrimonio fosse contratto col regime della comunione dei beni e che a lei toccasse dirigere la baracca. Aveva quasi trent’anni, la promessa; dieci più di Consalvo vii, essendo nata nel 1795, e non avendo potuto trovare per molto tempo un partito conveniente; il suo carattere, già forte, s’era inasprito nella lunga attesa del matrimonio, e dalla grande ricchezza, dalla potenza quasi feudale esercitata dal padre nel paesetto nativo le veniva un bisogno di comando, d’autorità, di supremazia che ella volle esercitare nella sua nuova casa. Il principe Giacomo xiii dovette piegarsi a quelle dure condizioni per evitare il fallimento e la liquidazione; e così tanto suo figlio quanto egli stesso furono costretti a lasciar le redini in mano alla moglie e nuora. Donna Teresa salvò infatti la casa, ma vi esercitò un potere tirannico al quale si piegarono tutti, dal primo all’ultimo, fuorché don Blasco. Senza paura né di Dio né del diavolo, il monaco la fece costante bersaglio della sua più violenta opposizione. Se ella restrinse certe spese, la accusò di disonorar la famiglia con la sua tirchieria; se continuò a spendere in altre cose come prima, le rinfacciò di volerla portare all’ultima rovina; ascoltando gli altrui consigli, ella fu una bestia incapace di pensare col proprio cervello; se fece da sé, restò più bestia di prima, accoppiando la presunzione alla bestialità. I quattrini che aveva portato in dote che erano? Una miseria! Quando quella miseria puntellò e fortificò la pericolante baracca, divenne il prezzo col quale ella comprò il titolo di principessa. La sua nobiltà era della quinta bussola, non solo incapace di stare a paragone con quella sublime degli Uzeda, ma neppur degna d’uno dei loro lavapiatti, di quei nobilucci morti di fame che vivevano facendo quasi da servitori ai gran signori. Ella non poté ordinare un abito alla sarta, né comprare un cappellino o un paio di guanti, senza che il monaco criticasse l’occasione della spesa, la qualità dell’oggetto e la scelta del negozio. Ma don Blasco non risparmiava neppure gli altri parenti; non il padre, che aveva prima ingoiato un patrimonio e adesso era ridotto a vivere dell’elemosina della nuora, non il fratello che aveva lasciato portare i calzoni alla moglie, mentre egli portava invece… «Santa prudenza! santa prudenza! aiutami tu!…» esclamava allora, tappandosi violentemente la bocca, dicendone più con quelle reticenze che non con un lungo discorso, confermando in tal modo le ciarle sparse sul conto della cognata, spiattellando poi in tutte sillabe il nome che conveniva a costei quando, morti i due principi padre e figlio nello stesso anno, la principessa restò sola, e molto più libera di prima, che era stata liberissima.
Ella lo lasciava cantare. Le grida del monaco non le potevano impedire di fare in tutto e per tutto quel che le pareva e piaceva. E don Blasco si dannava l’anima, vedendo le sue stravaganze e le sue pazzie. Il primogenito, in tutte le case di questo mondo, è il prediletto, va bene? Lì, invece, era odiato! Chi era il preferito? Il terzogenito! Da secoli e secoli, il titolo di conte di Lumera era appartenuto, con tutti gli altri, al capo della casa: adesso, per puro capriccio, per una pazzia furiosa, toccava a quel Raimondo che era stato educato come un «porco»! E il secondogenito, a cui neppure il Re avrebbe potuto togliere il suo titolo vitalizio di duca d’Oragua, era invece chiuso a San Nicola!…
La storia di don Lodovico rassomigliava molto a quella di don Blasco, con questa differenza, tuttavia: che mentre don Blasco era cadetto del cadetto, Lodovico aveva dinanzi a sé soltanto il principe, e come duca d’Oragua avrebbe potuto sperare, se non dalla madre, almeno da qualche zio i quattrini occorrenti a portar con decoro quel titolo. Poiché era inteso che un altro Uzeda, in questa generazione, doveva entrare a San Nicola, la ragione e la tradizione designavano il terzogenito, Raimondo; ma donna Teresa, per far passare la propria volontà su tutte le leggi umane e divine, invertì l’ordine naturale, e avendo preso a proteggere Raimondo sopra gli altri fratelli, lo lasciò al secolo facendolo conte, e cominciò invece a lavorare perché il duchino Lodovico sentisse la vocazione. Nessuno, quindi, poté dare al ragazzo, in presenza di lei, il titolo che gli spettava; fin dalla puerizia egli fu vestito della nera tonaca benedettina; come balocchi non ebbe altro che altarini, piccole pissidi e aspersori e ogni altra sorta di oggetti sacri. Quando la mamma gli domandava: «Tu che vuoi divenire?» il bambino fu avvezzo a rispondere: «Monaco di San Nicola.» A questa risposta gli toccavano carezze e promesse di carlini, di svaghi, di passeggiate in carrozza; se talvolta egli osava rispondere: «Non so…» donna Teresa gli pizzicottava il braccio tanto forte da farlo piangere finché gli strappava la risposta obbligata. Il confessore di lei, frattanto, il Domenicano Padre Camillo, lavorava a quel risultato educando il ragazzo alla cieca obbedienza clericale, mortificandone in ogni modo i sensi e la fantasia, dandogli la paura dell’Inferno, facendogli intravedere le letizie del Paradiso. Per meglio riuscire nell’intento, la principessa non mise presto il ragazzo al noviziato: lo tenne in casa fino ai quindici anni. Erano i tempi delle rigide economie, dei creditori affollati nelle stanze dell’amministrazione, dei debiti estinti a poco a poco; talché, dove don Blasco aveva udito parlare continuamente dei tesori che in parte erano colati sotto i suoi propri occhi, Lodovico non intese se non querimonie, minacce di gente che rivoleva il suo, l’eterno ritornello della madre esagerante a bello studio quelle strettezze: «Siamo rovinati! Non c’è come fare! Non ci resterà più nulla!» E mentre al palazzo Francalanza la principessa lavorava di lesina e prodigava le più efficaci dimostrazioni della miseria in cui erano ridotti, raccogliendo fiammiferi spenti per riaccenderli dall’altro capo, rivendendo le sue vesti smesse prima di farsene una nuova; ella poi descriveva a Lodovico il monastero dei Benedettini come un luogo di eterna delizia, dove la vita passava, senza cure dell’oggi e senza paure del domani, tra lauti conviti, sontuose cerimonie, gaie conversazioni e scampagnate gioconde. E quando finalmente