Lo assedio di Roma. Francesco Domenico Guerrazzi

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Lo assedio di Roma - Francesco Domenico Guerrazzi

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perle alla sposa? importa non buttare legna sul fuoco, ma davvero, tra lo agitare la camicia insanguinata dinanzi agli occhi del popolo infellonito, e scolpare ogni eccesso ci fie lecito domandare qual sia più tristo, e più nocivo alla Patria? Io per me, quando penso alla rigidità con la quale i Romani punivano ogni più lieve fallo in fatto di disciplina, non arrivo a capire la ragione per cui i Governanti nostri nieghino, o scusino colpe, che per debito sacrosanto avrebbono a ricercare, e a percotere. – Là dove si voglia opporre, come cessata la guerra riescano carico molestissimo i volontari, noterò che carico non meno molesto proviamo le milizie ordinarie: entrambi conservate divorano le sostanze del paese, entrambi dimesse ti empiono le carceri; in altri tempi quando era lecito manifestare il proprio concetto passò fino in proverbio, che la guerra fa i ladri, e la pace gl’impicca. Se oggi la guerra faccia i ladri non cerchiamo; bene però possiamo dire essere molto verosimile li partorisca la pace, ed è per questo, che noi divisavamo un dì trasformare il soldato in agricoltore tirando partito da terreni incolti, e per salvatichezza malsani; nel quale disegno ci confermava la necessità di respingere vie via nella campagna le braccia, che affluiscono nelle città dove le menano il desiderio di guadagno più largo, o di lavoro men duro, così che mentre le industrie manifatturiere nelle quali la Italia non può prevalere patiscono ribocco di cultori, le agricole poi ne sentono difetto.

      Proseguendo il mio discorso affermo, che la impedita annessione di Roma al Regno italico ci abbia condotto in termini di pecunia, che ormai non vedo come ci si possa trovare rimedio, almeno ordinario; ed anco questo tra gli altri tutti gravissimi è male delle rivoluzioni, o se pure vuolsi, delle trasformazioni tronche a mezzo. Per questo caso tu patisci gli strappi del vecchio, e non ti approfittano i rammendi del nuovo. Adesso la rivoluzione a mo’ del bronzo, squagliato per fondere il Perseo, che Benvenuto Cellini lasciava improvvido in balìa altrui, ha fatto migliaccio, e si chiede virtù più che umana a farlo liquefare; poichè quando potevamo non volevamo, adesso ci tocca a volere come potremo, se pure è volere quello che la necessità ci pone quasi giogo sul collo.

      Quando gli stati o per volontà propria, o per forza altrui operano rivoluzione o trasformazione patiscono scompiglio più o meno intenso, tuttavia sempre molesto. Chi va a prova di forza si cava meglio d’impiccio, almanco pel momento, però che detti la legge sopra la punta delle baionette. Le sono cose, le quali si devono dire, che la piaggeria al popolo, codarda quanto quella, che usiamo verso i re, torna agli stati più funesta assai: i Tedeschi invasori incutendo paura radunavano più agevolmente moneta, che non poterono i nostri Reggitori quantunque santissimi. Corrotti siamo fino al midollo, e con la perpetua iattanza di civiltà veliamo la putrefazione nostra a mo’, che si usa coprire col tappeto di velluto ricamato di oro il cadavere quando si porta al camposanto; non l’amore di Patria, bensì il terrore del bastone straniero fabbrica la chiave onde si aprono gli scrigni di questo immenso ghetto, che la gente moderata appella Italia.

      Ai Rettori delle rivoluzioni volontarie fanno mestieri sagacia grande, e virtù: importa ch’ei procedano lieve, lieve, che le carni sono scoperte e per poco s’infiammano, ed io ho creduto sempre, e tuttavia credo, che le regole generali, e le teorie della scienza sul principio delle rivoluzioni non approdino, anzi nocciano, e molto: a guidare gli esordii delle rivoluzioni, per mio avviso, si desiderano uomini ricchi di partiti; i quali nella moltitudine delle contingenze o varie, o discordi, o contrarie si schermiscano con rimedii empirici, sempre mirando a disporre la materia così, che un giorno accolga volonterosa l’ordinamento scientifico.

      Non si vuole negare, nè io già lo nego, come in siffatti negozi riescano più agevoli i consigli, che i fatti; quando di teorie fu mai penuria? Le pratiche sempre proviamo corte ai bisogni; poichè con le rivoluzioni volontarie non puoi valerti di sevizie, e potendo non lo dovresti; nè giovando andare loro di contro col prezzemolo al naso, a qual santo votarci noi non sappiamo. – Io l’ho pur detto sopra, di regole generali non hassi punto a fare parola; voglionsi uomini ricchi di partiti; e rimedii lì per lì escogitati ed apposti; nè solo in fatto di moneta, ma sì in ogni altro argomento politico mi apparve sempre inane e peggio mettere fuori quelli, che ai giorni nostri chiamansi programmi; e se anche io gli adoperai consentii piuttosto all’andazzo del tempo, che ad una mia persuasione; di vero se essi contengono generalità non rilevano, anzi sovente ingannano e la corda filata con la canape repubblicana non ti strozza meno stretta della fune tirannica; indicare poi rimedii speciali senza il caso di doverli applicare egli è un’ammannire cerotti prima, che il fignolo nasca. Se Casimiro Perier, o Cammillo Cavour tornassero al mondo e mi squadernassero in faccia un manifesto da disgradarne ogni più sterminata dichiarazione dei diritti dell’uomo, uccello accivettato io non cascherei sul vergone; che se all’opposto venisse un Washington, o un Kotschiusko, o un Bolivar, od altro divino spirito, onore di questa natura umana, e dicesse senza più parole: «in me confida» io gli porrei il capo in grembo. Capisco, che a questo modo corriamo pericolo grande; e sarà sempre un bel civanzo poterne fare a meno; ma quando non si può, Siena per forza.

      Tamen, per dirla a mo’ del Macchiavello, due partiti fino d’ora si possono annunziare; il primo consiste appunto nel liquefare il migliaccio rivoluzionario crescendo il fuoco come adoperò il Cellini col buttarci sopra la catasta dei quercioli secchi da più di un’anno, che gli aveva offerto madonna Ginevra moglie del Capretta; e quando il metallo cominciasse a schiarire, e a lampeggiare gittarci sopra anco il pane dello stagno, e dopo il pane piatti, scodelle, e tondi di stagno quanti ne fossero in casa. Molti lo hanno accertato prima di me, ed io più volte lo dissi e lo affermai: a volere che gli uomini sentano, ed operino eroicamente fa mestieri agitarli; la quale sentenza vera in ogni condizione del consorzio umano, comecchè meno imperfetto, torna a capello nella infelicissima del nostro. Le cose oggi sono ridotte a punto, che non farebbe maraviglia se il primo grido dei pargoli a mezzo usciti dall’alvo materno fosse: «quanto per cento mi assicurate per vivere, se no torno dentro....!» La Patria diventò un commercio, la Libertà un’affare, respublica negotiosa come ai tempi della decadenza romana: la più parte degli uomini, guardateli bene, portano segnato il prezzo tra ciglio e ciglio, come i bauli, le sacche, i ninnoli, ed altra siffatta roba vendereccia nelle botteghe dei mercanti, con la differenza, che su questi ci si legge: prezzo fisso; su gli altri no, però che il valore cresca, o scemi secondochè sul mercato vi sia maggiore o minore richiesta di viltà. – A rischio di riuscire sazievole io vo’ ripetere, che, battendo alla porta dello Interesse, ei non può darti altro, che uccellatori di strade ferrate, o di appalti, o di cariche, o di gladiatori per dodicimila franchi all’anno, o legislatori per tremila franchi al mese, soccorritori della Patria al saggio del venti per cento l’anno, o impresarii di tempii dedicati a Venere pandemica, o nobili offerenti a conquistarti col grimaldello in mano, e mercè il premio di seicentomila franchi una corona, che male si piglia e peggio si tiene se non per virtù di spada, o fornitori di pompe funebri, o scorticatori di capretti, o conti Bastogi.

      E strana cosa, mentre così si ragiona, ed opera da cui dovrebbe con gli atti porgere esempio imitabile al popolo riarso, estenuato, e reietto, che in onta all’eccessivo travaglio tira l’anima co’ denti, gli s’intronano gli orecchi gridando: «la Libertà è cara, bisogna pagarla.... Ma, il popolo esclama, dove si trova ella questa Libertà per la quale assottiglio il pane alla mia famiglia, e do il sangue dei miei figliuoli? – Io la conosco come i dannati la gloria del paradiso. Voi sempre in cima, io sempre in fondo, voi sempre gaudenti, io sempre tribolato. Per me intendo Libertà quella che mi accerta vita men dura, e mi leva dall’angustia dell’ignoranza: questa amo, e per questa patirei ogni disagio: la vostra di povero mi ha fatto misero. Per farmi vedere maggior lume voi mi ardete la casa. – Voi bandite inclito versare il sangue per la Patria, ma riscattate il vostro a suono di danaro; i miei figliuoli vanno esenti ad un patto, ed è, che per manco di cibo, o per troppo di fatica vengano sparuti, o cresciuti si guastino. Qui si lapida adesso la umanità co’ nomi, e con le apparenze generose si crocifiggono i popoli, la concordia significa tradimento, ordine la morte, libertà servaggio; come altra volta la misericordia era un coltello, e con un va in pace si mandava giù l’odiato innocente per un trabocchetto.»

      Guai allo stato, ed a noi tutti guai se il popolo, confrontati i mali della tirannide con quelli della falsa libertà, un giorno brontoli: «torni

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