La montanara. Barrili Anton Giulio

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La montanara - Barrili Anton Giulio

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questo vino, non sono santi forse tutti i doni della terra? E non è memoria nelle Sacre Carte che delle loro primizie si facesse offerta nei luoghi eccelsi all'Altissimo? Anch'io offrirò a Dio il liquore ch'egli ha infuso nel tralcio delle nostre colline, e pregherò (si può infatti pregare da per tutto) e pregherò al vostro ospite tutte le benedizioni del cielo. Sia salva la sua casa; sia prospera la sua famiglia; siano adempiuti tutti i suoi voti.

      – Tutti? – mormorò Gino, mentre s'inchinava all'augurio.

      – Tutti, certamente! – rispose Don Pietro. – Non sono essi onesti e nobili? E può il conte Malatesti averne di altra ragione? Possiamo noi immaginare che ne abbia altri, conoscendo la cagione per cui egli è venuto pellegrino quassù? Mi confido adunque nella rettitudine dell'animo suo, ed offro i suoi voti, e domando e prego che siano esauditi da Dio, nel suo gran giorno di giustizia e di pace. Non ha egli fatto alleanza col suo popolo? Così possa esser vicino quel giorno! Così possiamo anche noi vedere il nuovo Israele posar libero e felice nelle sue sedi, da Dan fino in Betsèba!

      – Ah! – esclamò Gino, che aveva capito… l'ebraico.

      – Sì, – riprese Don Pietro, commentando la sua frase nella forma della ripetizione, – dico il nuovo Israele. Non c'è qui una immagine di popolo eletto? E non ce ne affida questo doppio raggio di gloria e di sventura che illumina la fronte della patria? E l'aver tanto sofferto non è segno di aver bene meritato da Dio? Esaudite, Signore, i voti dell'ospite! Rivolgete i vostri occhi all'Italia! —

      In quel momento, col suo calice levato, Don Pietro Toschi, parroco delle Vaie, sembrava Melchisedec, il re sacerdote, quando offriva l'olocausto all'Altissimo sovra il poggio di Salem.

      Gli astanti erano commossi; Gino Malatesti aveva le ciglia umide. Si levò tuttavia e rispose:

      – L'augurio muove da un pensiero che non mi giunge nuovo in questa nobile casa, quantunque io ci sia ospite da poche ore soltanto. Ricorderò che il signor Francesco Guerri ha cortesemente raddrizzata una mia storta opinione, dicendomi: «Se sui monti è aria libera, come sfuggirne il contatto? come evitar la politica?» Mando un saluto a quest'aria libera, dove non sono o non si conoscono tiranni, ed auguro al mio paese di liberarsi dai suoi.

      – E di non meritarne degli altri! – soggiunse Don Pietro. – Sia questa la seconda parte del voto!

      – Certamente! – rispose Gino. – Le ricadute son gravi, e noi ne abbiamo fatta una triste esperienza. Speriamo che questa abbia insegnato qualche cosa agli afflitti di quindici secoli. Ed ora, o signori, permettete che io beva alla salute vostra, alla prosperità di questa casa ospitale, che ho trovata sul mio cammino, come un'oasi benedetta in mezzo al deserto. Signor Guerri, – conchiuse Gino, volgendo il discorso al suo ospite, ma tosto mandando gli occhi in giro, fino ai suoi figli, – poichè siamo nell'oasi, Dio prosperi le vostre giovani palme. —

      Una stretta di mano, ma vigorosa, fu il discorso del re della montagna, in risposta alle parole affettuose di Gino Malatesti.

      – Ella è un amico di casa, se ne ricordi.

      – Ahimè! – disse Gino… – Che è ciò? Son sceso di grado?

      – Perchè? – domandò il re della montagna, non intendendo lì per lì l'allusione del suo ospite.

      – Perchè, signor Francesco mio, dianzi era stato adottato per figlio.

      – Ah, sì; – rispose il vecchio, sorridendo; – quando ignoravamo ancora l'esser suo e non vedevamo in lei che la sua qualità d'ospite. Ma Lei ha voluto farsi conoscere, ed ora sappiamo il suo nome e il suo titolo.

      – E per questo che Ella sa, – ribattè Gino Malatesti, – mi leva quello che mi aveva accordato? Io me ne lagno, e chiedo alla regale ospitalità delle Vaie di non mutar nulla dai suoi cominciamenti per me.

      – Sia pur come vuole! – rispose il signor Francesco. – Non è sua, la casa? Prenda il posto che le piace, al focolare domestico dei Guerri. —

      La sala era vasta, e mentre i commensali, alzatisi da tavola, stavano chiacchierando in un angolo, quattro fantesche, giovani e forti montanine, sparecchiarono in un batter d'occhio. Gino si avvide del cambiamento di scena, quando ogni cosa era fatta. Lasciato il signor Francesco a discorrere col vecchio parroco, si accostò allora a Fiordispina, e le chiese in grazia di far sentire qualche cosa sul pianoforte, se, come aveva immaginato, era lei la musicista di casa.

      La bella figlia dei monti arrossì un pochettino, ma non istette a farsi pregare, come fanno le dilettanti della pianura; non si scusò neanche con la solita ragione del non ricordare che musica vecchia, ben sapendo che la vecchia è molto spesso la buona, e andò di buon grado a sedersi davanti al suo Erard, di cui il conte Gino sollevò prontamente il coperchio. Si fece silenzio nella comitiva, quando la fanciulla dei Guerri alzò la ribalta e posò le dita sulla tastiera, traendone i primi accordi, un po' timidi, ma precisi.

      Il pianoforte è molesto nelle città, come tutte le cose delle quali si abusa. C'è un modo di far soffrire il mio amico Arnaldo Vassallo: basta suonargli la Stella confidente. Il pianoforte, strimpellato in ogni luogo e a tutte le ore del giorno, è una vera afflizione dell'umanità, e non si capisce come Mosè, che era profeta e poteva prevederlo, non lo abbia fatto figurare tra le piaghe d'Egitto. Ma questo istrumento, che è di tortura in città, può riescir di piacere in montibus altis, dove manca ogni musica, anche quella dei grilli, e dove infine, a mente fresca e serena, osservando le cose di questo mondo da una sommità ragguardevole, sareste capace di riconciliarvi col peggiore dei vostri nemici.

      E le campane, del resto? Non succede lo stesso con le campane? Questo sacro ma uggioso bronzo, che co' suoi rintocchi medievali urta i nervi alle nostre generazioni ammalate d'emicrania, è piacevole in villa, dove il suono si diffonde all'aperto, risvegliando pensieri di festa; è giocondo, poi, è divino sulla vetta di un'Alpe, dove il suono vi giunge affievolito, ma sempre argentino all'orecchio, senza che pur vediate la chiesa e il campanile, perduti nella nebbia luminosa della valle sottoposta.

      Ritornando al pianoforte, non sarà mai considerato nemico un istrumento come quello, se ne traggono suoni le dita di una bella ragazza. Il pensiero melodico sarà di Chopin, o di Mendelssohn; ma esso è passato nella mente di lei, dove vorreste regnar voi; ha vibrato per tutti i suoi nervi, prima di tradursi in quella pioggia di note.

      Gino Malatesti, seduto accanto al piano, guardava. Guardava lei, si capisce, e ad un certo punto la fanciulla se ne avvide, si confuse, perdette il filo, e fece, come si dice volgarmente, un pasticcio.

      – Ebbene, signorina? – diss'egli, vedendo che la suonatrice rimaneva in tronco.

      – Ah, non so più! – mormorò Fiordispina. – Non sono avvezza…

      – No, continui, la prego! —

      E c'era tanto arder di preghiera in quelle poche parole, che Fiordispina ripigliò la suonata, andando fino alle ultime note senza fermarsi.

      Poi venne Don Pietro, che volle un motivo del Verdi, il coro famoso dei Lombardi, e poi l'altro, non meno famoso, del Nabucco. Voi già capite dove s'andasse a finire: con gli inni del Quarantotto. Don Pietro Toschi era un quarantottista travestito.

      Ora paiono cose dell'altro mondo; ma allora, nel periodo acuto dei dolori italiani, era così, come io vi racconto. Tutti li avevano in mente, gli inni del riscatto, e li canticchiavano tutti tra i denti. Anche quando si diceva male del Quarantotto, de' suoi canti, delle sue piume, delle sue coccarde e dei suoi discorsi in piazza, era facile sentire nell'amaro della critica il dolce dell'amore profondo, indimenticabile,

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