La montanara. Barrili Anton Giulio

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La montanara - Barrili Anton Giulio

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il nome del nonno; donde avviene che due soli nomi si alternino per parecchie generazioni, mentre per tutti gli altri nati di una casata ci sia libera scelta, e in questa scelta la moda e i gusti particolari trionfino. Lassù la moda non era giunta, o non aveva attecchito; i gusti particolari favorivano l'Ariosto ed il Tasso. Gino Malatesti s'aspettò di veder capitare da un momento all'altro Bradamante e Clorinda, Ginevra ed Erminia.

      Ma nessuna altra donna apparve nella sala da pranzo, e non fu neanche il caso di veder comparire nessun Ruggero o Mandricardo. La famiglia era tutta radunata, tranne quei due uomini, fratelli del signor Francesco e da lui accennati poc'anzi, uno dei quali era alla serra, e sarebbe capitato più tardi, e l'altro era a Sassuolo, nè sarebbe venuto altrimenti.

      Venne in quella vece il momento di prender posto a tavola. L'uso moderno avrebbe portato di mettere la signora Angelica al posto di mezzo, e il signor Gino alla destra di lei. Ma lassù regnava l'uso antico, e il posto d'onore fu dato all'ospite, che ebbe alla sua destra la signora Angelica, il signor Francesco alla sinistra. Fiordispina sedeva accanto a suo padre; Aminta dall'altro lato, presso la signora Olimpia; tutto il resto della tavola rimase vuoto, chè i commensali non si potevano inventare, per compimento della scena.

      Il pranzo fu copioso, in piena armonia con l'abbondanza dei principii. Dominarono, come potete credere, i piatti di cacciagione, ma non mancarono quelli di pesce, in un luogo così ricco d'acque correnti. E a proposito di correre, i vini prelibati non furono lenti, come non erano scarsi. A mezzo il pranzo, entrò nella sala il secondogenito dei Guerri, e fu presentato col nome di Orlando. Evidentemente, quella era una casa ariostesca, e il nome del nuovo venuto confermava la teorica foggiata lì per lì da Gino Malatesti. Per il signor Orlando non c'era che il guaio di essere stato innamorato di Olimpia, e di averla sposata; ma come evitarlo, quel guaio?

      Angelica era sua sorella, e se anche non lo fosse stata, avrebbe dovuto amar piuttosto Medoro. Egli, poi, non avrebbe voluto cambiare il suo nome in quel di Bireno, che fu il nome di un traditore. Il signor Orlando, adunque, si era adattato a quel piccolo guaio, della poca corrispondenza dei nomi, o non ci aveva neanche badato. Innamorandosi d'una Olimpia, poteva anzi rallegrarsi, di essersi imbattuto in un altro nome ariostesco, da tirare in famiglia.

      Nomi ariosteschi, adunque, con qualche spruzzatina di Torquato Tasso; ma tutt'insieme una famiglia patriarcale, in mezzo a cui si riposava, espandendosi, lo spirito di Gino Malatesti. Il giovanotto, che aveva già pensato tante cose e fatto tanti raffronti, non potè neanche astenersi dal meditare su quel pranzo magno, alle falde del monte Cimone, in quella casa di povero aspetto contadinesco, dove si era immaginato di dover fare un pasto magro. Ora è chiaro che le lezioni dell'esperienza debbano servire a qualche cosa, se l'animo che le riceve non è foderato di sughero. Proprio allora il conte Gino fece giuramento a sè stesso di non giudicar più dalle apparenze e di aspettare in ogni cosa la fine.

      Ma non aspettò che finisse il pranzo, per giudicarlo eccellente; che questo gli sarebbe parso magnifico, anche senza tanto contrasto di condizioni e chiaroscuro di circostanze, per cui dalla triste via dell'esilio tra i monti era capitato davanti alla scodella di minestra fuligginosa del mugnaio, e finalmente alla tavola ospitale dei Guerri. Per i quali tutti egli ebbe parole di somma cortesia. Educato com'era, esperto di tutte le delicatezze del conversare, Gino Malatesti innalzò quel giorno tutte le sue piccole qualità aristocratiche al grado superlativo. Voleva piacere a' suoi ospiti: unico modo di mostrar loro la sua gratitudine.

      – E dopo ciò, – diss'egli alle frutta, – triste cosa sarà dover andare a

      Querciola.

      – Ma sì, triste cosa! – ripetè il signor Francesco. – E si potrebbe ancora, con sua licenza, o usando della libertà che gli anni concedono, chiamarla una pazzia. A Querciola, mio signore, non troverà nulla di ciò che è necessario per vivere, quando non si è taglialegna o caprai. Non ha una casa laggiù dove ci sia una camera a mala pena abitabile. Ci sarebbe quella dei Paoli; – soggiunse con atto di concessione il signor Francesco, rivolgendosi al fratello Orlando. – Ma i Paoli, che ebbero un figliuolo medico e professore di chimica all'Università di Modena, vivono poveramente anche loro.

      – Verissimo; – disse Orlando. – Ho avuto occasione di entrarci l'altro giorno, per dire qualche cosa al vecchio Azzolino, Vuol crederlo? Non c'era neanche una sedia che si reggesse sulle gambe.

      – Eppure, – disse Gino, sospirando, – dovrò andare a Querciola. L'ordine parla chiaro; – soggiunse, volgendo alla signora Angelica, sulla sua destra, un discorso che era incominciato con la sua brava direzione a Fiordispina, sull'estrema sinistra.

      – L'ordine! – esclamò la signora Angelica. – C'è un ordine, per Vossignoria?

      – Ne giudichi Lei; – disse il giovane, cogliendo la palla al balzo. – Gino Malatesti, figlio del conte Jacopo, di Modena, si recherà a confine in Querciola, ed ivi rimarrà fin tanto che al nostro Venerato padrone non piaccia disporre altrimenti. Così scriveva ier l'altro a mio padre il signor direttore di polizia. Come ella mi vede, signora Angelica, sono un condannato politico… e condannato senz'ombra di processo. —

      Ciò detto, gli parve di respirare più libero. Era finalmente venuto a capo di palesare il suo nome.

      La signora Angelica aveva fatto un gesto di commiserazione, ma non aveva proferito parola. Il signor Francesco, capo della famiglia, l'unico a cui sarebbe toccato di dire qualche cosa, era rimasto pensieroso, e, forse per non essere obbligato a parlare, aveva in quel punto afferrato il suo bicchiere di lambrusco, e lo tracannava d'un fiato.

      – To'! – disse Gino tra sè. – Son caduto in mezzo a duchisti. Il re della montagna è un buon suddito di Casa d'Este, come mio padre. —

      Per altro, se erano duchisti com'egli pensava, i Guerri non erano scortesi coi loro avversarii, quando questi rivestivano la qualità di ospiti, e le attenzioni di quella gente al forastiero nè crebbero per il suo titolo conosciuto di conte, nè diminuirono per il suo peccato egualmente conosciuto di cospiratore politico. La signora Angelica, riavutasi certamente dalla prima sensazione spiacevole, parlò del dolore che il signor Gino aveva dovuto provare, separandosi da suo padre e da tutta la sua cara famiglia. Gino riconobbe che infatti il dolore era stato a tutta prima fortissimo, ma che poi lo aveva temperato grandemente un pensiero di riverenza per suo padre. Il conte Jacopo era un fedelissimo suddito, e certamente, se poteva dolergli che il figliuolo, per qualche atto o parola che accennasse ad altre idee, avesse destato il sospetto dell'autorità, doveva anche piacergli, che quel figliuolo andasse confinato tra i monti, anzi che rimanere a Modena, sotto la vigilanza della polizia, e col pericolo di dare altri argomenti alla severità del governo ducale.

      – Dunque, signora mia, – conchiuse Gino, – bisogna ripetere col proverbio antico, che tutto il male non vien per nuocere. Mio padre è più tranquillo, ed io debbo esser felice della tranquillità di mio padre. Infine, ho fatto il male, ed è giusto che faccia la penitenza; una penitenza che, come vedo dai principii, non è punto dolorosa! – soggiunse egli, ridendo. – Resta sempre la necessità di andare a Querciola, lo so; ma per un buon vicinato si può anche accettare una cattiva residenza. Ella mi ha detto, signor Aminta, che Querciola è distante a mala pena un'ora di cammino dalle Vaie, non è vero?

      – Fortunatamente; – rispose Aminta. – E non credo che l'ordine del governo le vieterà di passeggiare nei dintorni.

      – Tanto più che io qui non avrò occasione di cospirare; – ripigliò il conte Gino. – La politica è bandita dai monti.

      – Eh, chi lo sa? – disse il signor Francesco, levando il suo bicchiere nuovamente pieno all'altezza dell'occhio, e guardando attraverso il cristallo la bella tinta del vino. – Se sui monti è aria libera, come sfuggirne il contatto? come evitar la politica? Politica d'analogia, lo capisco, ma sempre

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