La montanara. Barrili Anton Giulio
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Ah, donne gentili, siete voi il tormento e la consolazione. Con voi si può vedere la luna in pien meriggio, ma senza di voi c'è buio a tutte le ore del giorno. La vostra presenza, a buon conto, reca la grazia nella conversazione degli uomini, o quanto meno l'obbligo di evitare certe locuzioni improprie con cui l'uomo dimostra ed afferma la sua indipendenza nel consorzio incivile. Dove voi siete, egli si studia di parer più garbato, e qualche volta ci riesce; ad ogni modo, bisogna tenergli conto dell'intenzione, vedendolo star sulla vita, ravviarsi i capegli, arricciarsi i baffi, tirar fuori dalle maniche e mettere in mostra i polsini della camicia, fare insomma tutti quegli atti, leggermente e graziosamente scimmieschi, per cui egli accenna il desiderio di piacere.
M'è occorso ieri (scusate la parentesi) di fare un piccolo viaggio. Eravamo tre uomini, nella carrozza dei fumatori, e ne capitò all'ultim'ora un quarto, un giovinotto bello come il Fauno di Prassitele, che appena entrato s'impossessò del suo sedile e dei due posti che c'erano, accomodandovi le membra per dormire, e puntando i suoi delicatissimi piedi contro il bracciuolo di mezzo. Mezz'ora dopo non gli bastavano più i due posti; alzò una gamba e sconfinò sul mio territorio, posandomi sulle ginocchia una scarpa, che fui costretto a prendere con due delicatissime dita, per ricondurla ne' suoi legittimi confini. Avrebbe egli fatto così, se io fossi stato una graziosa signora? Si sarebbe egli pure accomodato a dormire? Dèi immortali, mi parrebbe già di vederlo, ritto sulla vita, tirarsi su i baffettini, aggiustarsi il nodo della cravatta, lanciarmi occhiate assassine, spiando l'occasione di entrare in discorso, e fors'anco entrandoci senza aspettar l'occasione. Certamente, sarebbe diventato molesto, ma ad un altro modo; perchè proprio è così, noi siamo una razza noiosa come le mosche, e il senso della misura ci manca, così nel bene come nel male.
Come io tengo a bada voi con le mie chiacchiere, così il signor Francesco, il re della montagna, aveva tenuto a bada il suo ospite, descrivendogli per sommi capi la vita che si faceva tra quelle gole alpestri, e dandogli di passata un'idea dei lavori a cui si può attendere utilmente, nel taglio ragionevole dei boschi e nell'ingegnosa combinazione delle serre. Gino s'innamorò delle serre, e promise a sè stesso di andare un giorno a vederle, quelle poetiche chiuse di lastroni e di legna, che fanno pescaia alle acque e ricettacolo ai tronchi galleggianti, per lasciarli poi, a cateratta dischiusa, precipitare affollati in un serbatoio inferiore, e così via, di pescaia in pescaia, fino ai grandi depositi della pianura. Il nostro giovanotto non conosceva quelle industrie montanare; ignorava che lassù ci fossero costumanze e fatiche così selvaggiamente poetiche come quelle dei pioneers americani. Ma gl'Italiani ignorano molto, in Italia, e non è colpa loro, perchè l'ignoranza incomincia dalla scuola.
A un certo punto della conversazione, apparve il signor Aminta sull'uscio e fece un gesto a suo padre. Allora il signor Francesco disse al suo ospite:
– Signor mio, le abbiamo fatto aspettare un po' troppo il suo pranzo. Ma Ella ci scuserà, perchè non era la nostra ora, così che siamo stati colti alla sprovveduta.
– E mi rincresce del loro incomodo; – disse Gino.
– No, nessun incomodo; – ripigliò prontamente il vecchio, non lasciandogli il tempo di proseguire. – Per noi questa è la cena. L'anticipiamo un pochino, quest'oggi, come Ella ha dovuto ritardare il pranzo. Gli uomini, – soggiunse il signor Francesco, – debbono trovar sempre il modo di andare d'accordo, e non ci riusciranno, io credo, senza qualche concessione scambievole. Non le par meglio così, che star fitti nel proprio uso e nella propria opinione? —
Gino rise e approvò largamente. Non era più luogo da complimenti e da scuse, davanti ad un ragionamento così semplice e così largo ad un tempo.
– Mi permetta almeno di cambiar abiti; – diss'egli, che aveva vedute le sue valigie deposte in un angolo. – È affar di cinque minuti.
– Per che fare? – rispose il signor Francesco. – Ella è molto bene, così, e ci farebbe torto a volersi mettere sulle cerimonie. Via, ci contenti, e venga com'è. —
Gino si acquetò, vedendo che la miglior cerimonia era lì per lì l'obbedienza. E il signor Francesco, presolo amorevolmente per il braccio, lo condusse verso l'uscio.
– Mi permetta allora, – riprese Gino, che aveva sempre bisogno di qualche cosa, – mi permetta allora di dirle il mio nome.
– Poi, poi! – interruppe il vecchio. – Ci sarà sempre tempo. Ella è una persona garbata, e noi non avremmo merito nel riceverla, se non conoscessimo il cavaliere all'aspetto.
– Pure, – ripiglio Gino, – sarei tanto lieto di dirle il mio nome. Per obbligo di reciprocità; – soggiunse. – So infatti che Loro son Guerri.
– Bene, si consideri per oggi un Guerri anche Lei, un fratello minore, un figlio della famiglia; – replicò il signor Francesco. – Le dispiace, forse?
– No, davvero, e quando è così non parlerò più del mio nome, neanche domani; – disse Gino sollecito. – Son Gino Guerri, adunque. È un bel nome; suona bene! —
E rideva, il giovanotto, ed entrò ridendo nella gran sala, dove in quel frattempo era stata apparecchiata la mensa.
Qui, se io sapessi di esser letto da gente digiuna, amerei descrivere la tavola e le dodici, proprio dodici, qualità diverse di principii che facevano bella mostra di sè nei piattellini disposti in ordine, a destra e a sinistra di un vaso antico di Faenza, che torreggiava nel mezzo, pieno riboccante di fiori. Gino ammirò quello sfoggio, che dalle olive di Lucca andava fino alle sardelle di Nantes, passando per le acciughe della Gorgona, e che dalle polpettine di cipolla e prezzemolo, in salsa di capperi, si arrisicava fino alle altezze squisite del salmone rosato di Nuova York, passando per tutte le conserve, distinte di tanti nomi, del tonno di Sardegna, che ha certamente i suoi pregi. Pensate pur male di me, povero narratore, che vi sembrerò un ghiottone, ma non pensate male del mio eroe, che ammirò lo sfoggio della quantità, senza fermarsi ai particolari, e che volse subito la sua attenzione al vasellame. I piatti di mezzo, i tondi o le scodelle dei posti in giro, erano tutti di vecchia maiolica, e portavano tutti dipinto nel centro lo scudo dei Guerri, con la spada in palo e con la leggenda che sapete. Il finimento apparteneva per lo stile dell'opera alla prima metà del secolo scorso, e i gialli vivi e gli azzurri spersi, e la ricchezza degli ornati, dicevano chiaramente che quel vasellame era uscito da una delle migliori fabbriche di Romagna.
Gino ammirava ancora, abbracciando con l'occhio tutta quella ricchezza ceramica, quando dall'uscio di rincontro apparvero due signore.
– Ah, ecco le nostre donne! – disse il signor Francesco. – Ora Ella farà un po' di conoscenze in famiglia. —
La prima che si avanzava era un bel tipo di donna attempata, coi capegli brizzolati, ma la carnagione ancor fresca e lucente.
– Mia sorella Angelica; – ripigliò il signor Francesco. – Ella fa qui da padrona di casa, poichè i miei figli hanno perduta la madre. —
E sospirò, il re della montagna, mentre Gino salutava.
La seconda che veniva verso di lui era più giovane di qualche anno, bruna, dall'occhio ardito, dalle labbra tumide, indizio di bontà.
– Mia cognata Olimpia; – disse