La montanara. Barrili Anton Giulio

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La montanara - Barrili Anton Giulio

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tempo a dirlo, se vorrà; – disse Aminta. – Gasparino mi aveva accennato che Ella si reca a Querciola, per passarci alcuni giorni.

      – Che potrebbero esser mesi; – replicò Gino.

      – In quel luogo! – esclamò l'altro. – Ma ci sarà da morire d'inedia.

      – Necessità, signor mio! – rispose Gino, stringendosi nelle spalle.

      – Rispettiamo la necessità; – disse Aminta, inchinandosi. – Ma non c'è posto per Lei, a Querciola. È un paese di caprai, e non ci son famiglie, ch'io sappia, le quali possano offrirle una ospitalità pur che sia.

      – Pure, debbo andarci; sono costretto! – disse Gino, sospirando.

      – Ci andrà domani, doman l'altro, quando le piacerà; – rispose il signor Aminta. – Per ora si degni di smontare da noi.

      – Non abuserò della sua gentilezza?

      – Che dice Ella mai? La nostra casa sarà onorata della sua presenza. Del resto, – soggiunse quel principe ereditario, – che ci staremmo a far noi in queste alte solitudini, se, quando ci arriva un forastiero, non lo accogliessimo a festa? Aggiunga, signor mio, che altrove starebbe peggio che da noi. La vita è dura, tra questi monti, in mezzo ad una gente buona e leale, ma rozza…

      – Non mi pare, non mi pare; – interruppe Gino. – Si fermi almeno alle buone qualità, se non vuole aggiungerne delle altre. —

      Il signor Aminta ringraziò col gesto, e additò al forastiero il cavallo che era stato condotto per lui. Anzi, per colmo di gentilezza, volle mettersi egli stesso dall'altra parte, per offrirgli le redini.

      Gino non aveva bisogno d'aiuti, e lo dimostrò subito, balzando in sella con una grazia di cavaliere perfetto. Nella perfezione del cavaliere c'entrano anche, lo immaginate, i ventisei anni di cui lo ha privilegiato il suo atto di nascita.

      Il cavallo di Gino Malatesti era un bel rovano, di larga cervice e di garretti robusti, con due occhioni intelligenti e gli orecchi tesi, che indicavano una serietà di nobile animale, non ignaro della importanza degli uffici a cui è destinato. Gino gli palpò amorevolmente il collo, e n'ebbe in risposta un nitrito di soddisfazione.

      – Strano! – diss'egli. – Non mi aspettavo di trovar cavalli, in queste balze.

      – Cavalli di montagna, signor mio; – rispose Aminta. – Sono addestrati a correre per i greppi, e son saldi di passo come le mule. —

      Aminta era montato in sella anche lui, e andava primo, per insegnare la strada. Così salirono l'erta del monte, e di là dalla boscaglia dei cerri il conte Gino vide una piccola valle, con un'altra costiera, vestita da un'altra boscaglia. Ma lassù, dalle vette dei faggi e delle quercie, appariva un campanile; e accanto al campanile una mobile striscia di fumo indicava la presenza di una casa. C'era abitato, lassù, e i bisogni dello stomaco e quei dello spirito potevano esservi soddisfatti egualmente.

      – È là; – disse il signor Aminta, voltandosi al forastiero e additando il campanile. – Fra dieci minuti ci siamo. —

      Andando avanti, e girando intorno alla macchia, si scopriva un po' meglio il paese. Là, dietro il campanile, era un ceppo di case, le une a ridosso delle altre, male ordinate e di misero aspetto. Anche la chiesa doveva essere una povera cosa, a giudicarne dal campanile, corto, gobbo e tutto sbrendolato nell'intonaco. Ritornando alle case, d'intonaco non si vedeva pur l'ombra; erano tutte murate a falde di macigno, ed apparivano così nere, da lasciar credere che tra pietra e pietra non fosse stata neanche messa la calce. Un po' meglio in assetto era la via che conduceva all'abitato, e questa parve a Gino una buona testimonianza della cura che i re della montagna avevano dei loro cavalli.

      All'ultima svolta della strada gli si mostrò finalmente la chiesa, in tutta la sua maestà decaduta. Il finestrone della facciata aveva avuto in altri tempi una cornice di stucco, e certamente un cornicione doveva aver collegato il timpano alla gronda del tetto; ma cornice e cornicione erano spariti da un pezzo. Anche il muro, nella parte superiore, era tutto scrostato; solo nella inferiore, accanto alla porta d'ingresso, durava ancora ne' suoi contorni di rosso mattone un san Cristoforo seduto, col bambino Gesù posato sulla sua spalla destra, e con la mano levata. In atto di benedire i popoli, o di prendere al Santo una ciocca de' suoi capegli rabbuffati? Il pittore aveva lavorato in modo da lasciar adito a tutt'e due le supposizioni, e magari ad una terza. O san Cristoforo delle Vaie! nobile tipo di taglialegna, certamente copiato sulla faccia del luogo! Voi eravate enorme, come vuole la leggenda. Bontà vostra, che restavate seduto (o inginocchiato, non rammento più bene); se no, sfondavate con la testa la gronda del tetto.

      Il Gino ammirò san Cristoforo e tirò via, seguitando il compagno. La via, rasentando il fianco della chiesa, si faceva più stretta, poichè sorgeva dall'altra parte una casetta di due piani, fatta a capanna, con una piccola scala all'aperto. Sull'ultimo gradino di quella scala era seduto un prete, magro ed ossuto, che portava in testa, scambio del berretto a tre spicchi, una papalina di velluto nero, e se ne stava là in osservazione, beatamente traendo boccate di fumo da una vecchia e corta pipa di Gessèmani.

      – Don Pietro, buona sera! – disse il signor Aminta passando, e levandosi il cappello. – Viene da noi?

      – Dopo cena, sicuramente.

      – Perchè non prima?

      – Caro Aminta, la pentola è al fuoco, e non bisogna mancarle di riguardo. Poveraccia! È quella di tutti i giorni, e un sentimento di gratitudine comanda di esserle fedeli. Non vi pare?

      – È giusto, è giusto; – disse il signor Aminta. – A più tardi, dunque; e buon appetito.

      – Non manca mai, quello! Altrettanto a voi e al vostro compagno di viaggio. —

      Così dicendo, Don Pietro si alzò a mezzo, levandosi la sua papalina dal capo.

      Gino rese il saluto, e disse frattanto in cuor suo:

      – Ecco qua: noi ci lagniamo di dover vivere nelle nostre città capitali, che hanno il grave torto di non rassomigliar tutte a Parigi. E qui, e in tanti luoghi consimili tra i monti, vive un popolo industre e buono, che si contenta de' suoi villaggi appollaiati sui greppi, nè sembra accorgersi che le sue abitazioni sono catapecchie e stamberghe. Anche qui ci sono i ricchi, i potenti, e si adattano al modesto costume dei padri loro. Non manca neppure il re, e questo re della montagna molto probabilmente non possiede le querci per sedercisi sotto, a render giustizia, ma per tagliarle via via e mandarle ai lontani cantieri. Qui non saranno ricercatezze di cibo, non salse, non intingoli; ma pezzi di cinghiale, uccelli di passo, quarti di bove o d'agnello, arrostiti all'omerica, e magari serviti in piatti di argilla, su d'una tovaglia di canapa. Ma che importa? Sono felici egualmente. —

      Così andava almanaccando, e gli ricorrevano alla mente i bei versi di Bernardo Tasso, intorno alla vita campestre:

      O pastori felici,

      Che d'un picciol poder lieti e contenti

      Avete i cieli amici,

      Nè di mar paventate ire o di venti!

      Noi vivemo alle noie

      Del tempestoso mondo ed alle pene;

      Le maggior' nostre gioie

      Ombra del vostro bene,

      Sono di fiele e d'amarezza piene.

      Questo è su per giù il ragionamento che tutti fanno, quando, sottratti al fascino delle città rumorose,

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