La montanara. Barrili Anton Giulio

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La montanara - Barrili Anton Giulio

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Non a Torino, veh! per causare il pericolo delle distrazioni. Polissena si era fatta accompagnare fino ad Alessandria, e là aveva condannato il conte Gino a rimanere tre giorni, a contemplare i rossi baluardi della cittadella, o a contar le ore sul quadrante del palazzo comunale. Questo rimanere più a lungo e da solo nel territorio scomunicato, aveva certamente insospettito il governo ducale. Francesco V poteva creder benissimo che quello del giovane conte Malatesti non fosse un viaggio a Citèra, per offrir sacrifizi alla madre d'Amore, ma un vero e proprio pellegrinaggio a Delfo, per consultare gli oracoli della Patria.

      Ahi, Polissena! Da quel giorno gli sgherri avevano posto gli occhi su lui. Se egli soffriva il confine a Querciola, si poteva benissimo accusarne un discorso tra amici in festa, ma non senza farne risalire l'origine a quel viaggio, e per conseguenza all'amabile capriccio della marchesa Baldovini. Lassù, nei pressi del monte Cimone, gli era avvenuto di trovarsi solo, di respirare un istante più liberamente, senza il pericolo che la marchesa gli passasse daccanto e gli gittasse una di quelle parole che lo facevano tremare. Ma infine, come prima, nel salotto di lei, anche allora, alle falde del Cimone, egli non si sentiva in colpa. E perchè, poi, le sarebbe stato infedele? Gratitudine, sì, ne aveva molta ai signori delle Vaie, e doveva in qualche modo dimostrarla. Quelle cure amorevoli, quegli inviti a pranzo, erano cose di tutti i giorni; ma egli, nella condizione in cui era, non poteva neanche ritrarsene. Per altro, si sentiva sicuro di sè, avrebbe anche fatto buona guardia al suo cuore, contro gli inganni della fantasia, contro le tentazioni del tempo e del luogo. La cosa era necessaria altresì per riguardo a quella gentile fanciulla, così bella, così intelligente, ma pure così inesperta delle cose del mondo. Sarebbe stato brutto, indegno di lui, turbar la pace di quell'anima verginale. Al posto, adunque, signor Gino degnissimo, al posto! È così facile, quando si vuole davvero!

      Chi gli diceva di no? Chi mai gli bisbigliava nel cuore che certe cose è più facile immaginarle che farle? Sicuramente un genio maligno, uno spirito noioso, che vive dentro di noi e fa la critica di tutti i nostri pensieri. Dovrebb'essere il diavolo della logica: un diavolo arguto, dopo tutto, e non cattivo come sembra; ma riesce ordinariamente antipatico, perchè contraddice volentieri e ci mette alla disperazione con le sue ironie sanguinose.

      Ah sì, spirito malnato? Credi proprio che sia tanto difficile il fare una cosa, quando si vuole davvero? Aspetta un pochino anche tu, e vedrai come ci si riesca.

      Davanti a quel fermo proposito, il genio maligno taceva, quasi umiliato, e ritirava le corna. Gino, frattanto, inforcava il cavallo, per ritornare alle Vaie.

      Ci andò per due giorni ancora, abbastanza contento di se medesimo. Oramai, forte della sua risoluzione, il nostro giovinotto poteva credersi agguerrito al pericolo. Parlava liberamente con Fiordispina, non cercando mai, ma neanche sfuggendo l'occasione di trovarsi solo con lei. Più volentieri restava in conversazione con la famiglia riunita, e allora faceva pompa di tutto quello che sapeva, ragionando con garbo, girando le frasi con arte, dando alle parole tutte le più dolci inflessioni di voce. Non è forse lecito, questo? Non è anzi un dovere, quando vogliamo farci ascoltare senza troppa noia da un numeroso uditorio? Cercar di piacere alla gente non fu mai un delitto; è anzi una bella cosa, quando è l'unica che possiamo fare, a ricambio di tante gentili attenzioni che ha la gente sullodata per noi.

      La sua presenza era molto gradita, nella casa dei Guerri. Anche i re conoscono la noia, e un discorritore ameno, che parli gravemente di mode e gaiamente di cose scientifiche, buon dilettante per ragionare senza sussiego di arte e di lettere, diplomatico raffinato per toccare, senza scoprirli, i segreti dei gabinetti, e per dipingere con un rapidissimo tocco i piccoli difetti dei sovrani esteri, che sono fratelli e cugini del padrone di casa, è veramente la man di Dio in un circolo intimo, donde il cerimoniale è per due ore sbandito. Per i re della montagna, il conte Gino era come una gaia nota di sole nel fosco della macchia; la sua presenza una bella meteora, la sua conversazione un fuoco d'artifizio. Anch'essi, tanto buoni e ricchi di quella gentilezza che non s'impara lì per lì, ma che è il frutto di una lunga educazione, fors'anco eredità di famiglia, anch'essi, dico, si facevano più amabili al contatto dell'ospite, fresco degli usi e delle garbatezze cittadine, brillavano anch'essi di quella vernice, che, a dirvi la cosa molto volgarmente, tutti i corpi son capaci di prendere per sola virtù di strofinamento. Ed avveniva allora nella casa dei Guerri ciò che spesso accade in una brigata di persone civili, quando, per opera non avvertita di uno, che abbia garbo e misura, tutti si accorgono con meraviglia di avere avuto più spirito. – Come è passato il tempo! si dice. E siamo proprio noi, che ci siamo divertiti così? —

      Vi ho detto che Gino fu ancora per due giorni alle Vaie, con molta sicurezza di sè. Ci era andato il terzo giorno; ma la sua tranquillità era stata turbata sul più bello. Si stava appunto per prendere il caffè, quando vennero a chiamare il signor Aminta, che andò subito fuori, e ritornò dopo cinque minuti.

      – Sai? – diss'egli a Gino. – Ci sono due signori a Pievepelago.

      – Ah! – esclamò Gino, turbato. – Cercano forse di me?

      – Lo credo, perchè hanno domandato la via di Querciola. L'uomo che è venuto ad avvertirmi in fretta mi dice che all'aria gli sembrano due impiegati del governo ducale.

      – Due commissarii! Troppo onore; – borbottò Gino. – E come ne sei stato avvertito?

      – Prevedevo la visita, – rispose Aminta, – ed ho stabilito il mio servizio di esplorazione.

      – Grazie, mio buon amico e fratello! Ed ora, potranno esser qua da un momento all'altro.

      – No, perchè si erano messi a tavola, quando il mio esploratore montava a cavallo. Del resto, puoi riceverli qui.

      – Che! Non mi conviene davvero.

      – E perchè? – domandò il signor Francesco. – Ella è in casa sua.

      – Appunto per questo che a Lei piace di dire; – rispose Gino, ridendo. – I satelliti del tiranno vedrebbero che sto troppo bene, fra queste montagne. Cattivi come le scimmie, mi farebbero subito un brutto servizio presso l'autorità superiore, e questa, con un suo nuovo rescritto, mi manderebbe Dio sa dove.

      – Allora scappi subito! – dissero le signore.

      Aminta corse nella scuderia, a far sellare il cavallo di Gino. Per quel giorno, intanto, addio conversazione!

      – Ci porti notizie, quando saranno ripartiti; – disse il signor Francesco, stringendo la mano al suo ospite.

      – Oh, sicuramente; non dubiti. Signore mie, compiangano un povero condannato, che deve obbedire al precetto. —

      Cinque minuti dopo, era a cavallo, e Aminta lo accompagnò fin sulla strada.

      – Non correre tanto; – gli disse. – Per venire a Querciola debbano passare di qua. Se anche hanno trovato muli a Pievepelago, non c'è pericolo che vengano al trotto. Comunque, noi non offriremo loro i cavalli per raggiungerti. Quando ci rivedremo?

      – Se mi lasciano, – disse Gino, – fo una trottata stasera.

      – Bravo! Ti hanno guastata la fine del pranzo; vieni a cena.

      – Eh! Perchè no? A rivederci. Se non posso liberarmi, ti mando Pellegrino con le mie notizie. —

      Pellegrino era il famiglio dei Guerri, collocato da questi al servizio di Gino Malatesti.

      Il nostro confinato era già da due ore nel suo eremo di Querciola, e incominciava a credere che quello di Pievepelago fosse stato un falso allarme, quando sentì un batter di ferri sul selciato della strada.

      – Ah, ah, ci siamo! – disse

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