La montanara. Barrili Anton Giulio

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La montanara - Barrili Anton Giulio

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signor conte… vuol notizie di Modena? —

      Gino aveva sperato che il commissario si disponesse a prendere commiato, e già era per alzarsi. Il resto della frase lo trattenne. In fondo, meglio così; la conversazione prendeva un tono migliore, e le notizie di Modena erano sempre buone a sapersi.

      – Mi fa un favore; – diss'egli inchinandosi.

      – Prima di tutto, il suo signor padre sta bene. L'ho veduto ieri mattina in via Emilia, che andava a fare la sua solita passeggiata. Gli altri di casa sua, tutti bene egualmente. È ammalato il conte Azzolini, canonico del Duomo; ma quello ha ottantasei anni, poveretto, ed è pieno di acciacchi. Il marchese Frassinori è caduto ier l'altro da cavallo, ma senz'altro danno che qualche contusione. Le belle signore di Modena son tutte in grande fermento, per la riapertura del teatro.

      – Diamine! – esclamò Gino. – E perchè si riapre il teatro?

      – Caso strano, signor conte, caso eccezionale! È venuta a passare qualche settimana in patria la nostra famosa Venturoli, stella di prim'ordine nel cielo dell'arte, reduce dai suoi trionfi di Pietroburgo. Ella ha accettata la proposta di farsi sentire dai suoi concittadini, e darà quattro rappresentazioni, due della Lucia di Lamermoor e due della Sonnambula, che sono, come Ella sa, i suoi due cavalli di battaglia. Grande aspettazione, perciò, e si prevede che verrà molta gente, anche da Guastalla e da Reggio. Noi siamo debitori di questa fortuna insperata alla signora marchesa Baldovini.

      – Ah, bene! – disse Gino. – È una dama di buon gusto, la signora marchesa. Strano, per altro, che non mi abbia detto nulla di tutto ciò, l'ultima sera che ebbi l'onore di andare alla sua conversazione.

      – Si capisce: la cosa è nata lì per lì, appena si seppe che la Venturoli era giunta. La marchesa ha conosciuta la celebre cantante a Milano. La conosceva già da ragazza, io credo; ma deve aver rinnovata la conoscenza, quando la nostra insigne concittadina fece quel gran fanatismo alla Scala, sei o sette anni fa. L'altra sera, in conversazione, fu detto alla marchesa che la Venturoli era a Modena. So la cosa dall'illustrissimo signor presidente del tribunale, che ha qualche bontà per me, ed è così bravo dilettante di violino. La marchesa ebbe allora l'idea di farla cantare a Modena. Detto fatto, andò la mattina dopo a trovarla, e venne a capo di tutto, È onnipotente, la signora marchesa! Ier l'altro era già ottenuto il permesso e combinato ogni cosa. Si aspetta un tenore, con un baritono e alcune seconde parti, mandato a cercare in fretta a Milano. Quanto al basso, c'è l'Orlandi, nostro modenese anche lui, che fortunatamente era a casa, in attesa di scrittura. Ah, saranno quattro serate magnifiche, quattro serate deliziose!

      – Ella ama molto la musica, signor commissario?

      – Dica che ne vado pazzo, signor conte. Che si fa celia? Un po' di buona musica, è il maggiore dei conforti.

      – Sarà dilettante, m'immagino; suonerà qualche istrumento.

      – Nelle ore d'ozio, e piuttosto male, il violoncello; – rispose il commissario, con l'atto e l'accento di finta umiltà, per cui vanno distinti i virtuosi seguaci d'Euterpe… e d'altre Muse parecchie.

      – Ottimamente! – disse Gino, salutando.

      E sorrise, pensando alla bella figura che doveva fare il signor commissario, con quell'enorme violino ritto tra le ginocchia. Ma sorrise per poco, ritornandogli a mente la signora marchesa Polissena, che pensava a metter su spettacoli teatrali, e proprio in quel giorno che egli correva da Modena a Pavullo, per recarsi al suo luogo di esilio. Ahimè! Così va il mondo. Anche quel povero Ovidio, cavaliere e poeta, veleggiava tristamente verso l'Eusino, e frattanto le belle dame romane, amate e cantate da lui, andavano allegramente a teatro, non cercando più l'elegante profilo del poeta nella precinzione dell'ordine equestre.

      – Beati loro che si danno bel tempo! – soggiunse Gino, dissimulando l'amarezza del ricordo particolare sotto quella espressione di rimpianto generico.

      – Che vuole, signor conte? Si fa il possibile per tener lontana la noia. Il paese è tranquillo e contento e speriamo che le cose vadano di bene in meglio. Quando il raccolto è buono e la gente ha lavoro, che desiderare di più, se non qualche ora di svago intelligente, nel culto delle arti belle?

      – Ha ragione; – disse Gino. – E tutto sia per il meglio, nel migliore dei mondi possibili. —

      Così dicendo, si alzò per davvero, volendo farla finita. Il nostro giovinotto non ne poteva più; aveva un diavolo per occhio.

      – Mi duole, signor commissario, – riprese, – di non aver nulla da offrirle.

      – Oh, non s'incomodi; abbiamo desinato a Pievepelago.

      – Ma neanche un bicchier di vino che meriti questo nome. Il raccolto dell'altr'anno dev'essere stato scarso, perchè qui non han nulla di nulla.

      – A proposito: e che mangia?

      – Vivono le galline, fortunatamente; – rispose Gino. – Ova sode, ova a bere, ova fritte, ova in tegame; questo è il fondamento del pranzo. Vien poi qualche vecchio gallo, che sacrifico ad Esculapio, per ottenere un po' di brodo.

      – Via! – esclamò il commissario. – Osservo con soddisfazione che non le manca il buon'umore: segno che sa adattarsi alle circostanze. Lo dirò, se permette, a Sua Eccellenza.

      – Dica pure, dica pure; – rispose Gino; – aggiunga, per altro, che non mi lagnerò, se mi richiamano a casa.

      – Capisco, ed anche in tempo utile per assistere ad una rappresentazione della Sonnambula; non è vero, signor conte? Questo mi par difficile, non glielo nascondo; ma creda pure che dal canto mio gliel auguro di tutto cuore. La mia servitù! —

      Gino stese la mano al signor commissario. E non tanto per lui, che gl'importava pochino, quanto per aver argomento a stringer poi quella dell'applicato, personaggio muto, ma più amico dei fatti che non delle parole, come abbiamo veduto testè.

      Quando finalmente fu solo, diede una rifiatata di contentezza; maravigliandosi, per altro, di aver saputo dire tante bugie. Ma è la necessità che fa l'uomo industrioso, e con quelle bugie così naturalmente infilate, il nostro giovanotto aveva custodito il segreto dei piccoli vantaggi materiali e morali che si era procacciati nel suo luogo d'esilio.

      Udito il batter dei ferri sul ciottolato della strada, discese per chiamar Pellegrino.

      – Ho bisogno di sapere se i due che sono partiti si fermano alle Vaie.

      Dovrei ritornarci io, e non mi piacerebbe d'incontrarli laggiù.

      – Vado a vedere; – disse Pellegrino.

      – Ma senza farti scorgere!

      – Non dubiti; conosco tutti i sentieri, e non ho neanche da seguirli fin là. In un quarto d'ora sono alla Pietra Aguzza, donde si vede netta la strada delle Vaie e il portone della casa Guerri.

      – Ottimo osservatorio! – disse Gino. – Va dunque, e ritorna appena vedrai quei signori avviati a Fiumalbo. —

      Pellegrino escì sulla strada, e il conte ritornò nella sua camera, sorridendo ai mobili che avevano destata la maraviglia del signor commissario.

      – Miei buoni amici delle Vaie! – diss'egli in cuor suo. – Vi ho fatti passare per gente che dà la roba a pigione. Scusatemi! Lì per lì non sapevo che altro inventare, e mi sembra

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