La testa della vipera. Bersezio Vittorio

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La testa della vipera - Bersezio Vittorio

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monaca non disse nulla: dispose appiè del letto il tavolino col crocifisso e le candele, accostò l'inginocchiatojo e si mise a pregare.

      – Cara suora, ha ella bisogno di qualche cosa? domandò Marianna facendo meglio che poteva la voce dolce e insinuante.

      – No, grazie, rispose la monaca senza pure voltare il capo. Starò qui a pregare finchè venga la mia compagna a surrogarmi.

      – Benissimo… Le sue preghiere sono una carità fiorita per questa povera anima… Pregherei anch'io molto volentieri qui con lei… ma sono stanca… Ho vegliato parecchie notti… e per me le emozioni mi accasciano. Vado a gettarmi sul letto… Oh, non dormirò… pregherò anch'io… ma proprio non posso più star su.

      La monaca, colla fronte serrata fra le mani, seguitava a pregare senza dar retta alle parole di Marianna.

      Questa non aggiunse altro e scivolò fuori della camera senza rumore; dieci minuti dopo, essa dormiva sodo, come chi ha l'anima soddisfatta e tranquilla.

      III

      – Morta! ripetè Lorenzo fuggendo cogli occhietti grigi e maligni lo sguardo dritto, levato della suora di carità.

      – Da due ore… La vuol vedere?..

      E senza aspettare risposta, la monaca sollevò uno dei candelieri, tirò in là una delle cortine e fece cadere la luce gialla dalla candela sul volto della morta.

      Una gran placidezza s'era diffusa su quel volto fattosi del colore del vecchio avorio; ne spirava quel non so che di solenne e di sacro, che dà ai lineamenti umani la morte.

      A quella infelice la Provvidenza non aveva concesso l'inestimabile privilegio della donna che è la bellezza; irregolari i tratti, cinerea la carnagione, povera la capigliatura, troppo sporgente e a bozze la fronte, incavate le guancie, meno candidi i denti; un pregio solo: una grande aria di bontà a cui si aggiungeva la timidezza del debole.

      – Luisa! esclamò Lorenzo facendo un passo verso il letto: ma il suono di quel nome pronunciato dalla sua voce parve stupirlo, infondergli non so qual paura. Anche dalla vista di quel placido volto di cadavere fuggirono i suoi occhî irrequieti. Egli chinò il capo e mormorò piano:

      – Morta!.. Poveretta!

      – Vuol sentire le ultime parole che ella disse?

      Lorenzo, sempre guardando in terra, accennò di sì col capo.

      – Si fece portare il bambino, e baciandolo mormorava: «lo raccomando, lo raccomando…» È certamente a lei che voleva raccomandarlo.

      Lograve fece sgusciare verso la monaca una ratta guardatura maligna.

      – Sono suo padre, disse con voce cupa non ho bisogno che mi venga raccomandato… E hanno lasciato lei sola qui? s'affrettò a soggiungere per cambiar discorso.

      – Sì.

      – Non istà bene.

      – È il mio ufficio questo, e non ho bisogno di ajuto nè di compagnìa per compirlo.

      E tornò all'inginocchiatojo a pregare. Lograve rimase un momento esitante, quasi perplesso.

      – E… la governante? domandò poi abbassando ancora la voce.

      – Si è ritirata anch'essa, rispose la monaca senza voltarsi.

      Il vedovo andò al camino dove ardeva un buon fuoco, sedette e si diede a fissare le fiamme che danzavano sui tizzi. Regnava il più profondo silenzio. La monaca stava immobile sull'inginocchiatojo a pregare; il marito di quella morta immobile a contemplare il fuoco acceso. Egli non aveva l'ipocrisìa d'una lagrima. Non si poteva dire che sentisse rimorso; ma un grave fastidio l'occupava; il pensiero dell'irrevocabile, dell'irrimediabile, gli era come un peso al cervello. Questo, stanco dalla veglia e dalle emozioni del giuoco, cadeva di quando in quando in una specie di vaneggiamento in cui le idee si confondevano scambiandosi in imagini spropositate, come quelle dei sogni, e, pur rimanendo sveglio, perdeva la percezione esatta delle cose e del tempo.

      A un punto uno dei tizzi, a metà consumato dalla fiamma, cadde e rotolò giù dal focolare: Lorenzo si riscosse, prese affrettatamente le molle, raggiustò la legna, e sbadatamente si mise a battere sui tizzi; ma in quel silenzio di morte il rumore prodotto gli parve enorme, scandaloso. Egli si drizzò in piedi, depose pianamente le molle, guardò di sfuggita verso il letto, e con passo guardingo uscì dalla camera.

      Lungo il corridojo, a capo del quale era la sua camera, Lorenzo passò dinanzi ad un uscio e si fermò esitante: un forte russare venne ad avvertirlo che la Marianna ci dormiva profondamente. Fece un atto quasi di dispetto, e continuò la sua strada. Giunto nella sua camera, vi si rinchiuse, accese una lampada, poichè il giorno non era abbastanza chiaro, e passeggiò un poco su e giù, colle braccia incrociate, il capo chino, più curve del solito le spalle grosse. Poi sentì un gran freddo invaderlo con un malessere di tutta la persona.

      Spense il lume, si buttò sul letto vestito come era, e si avvoltolò ben bene nella coperta imbottita. La stanchezza della veglia lo opprimeva, il calore a grado gli rianimava il sangue, gli parve di potersi addormentare anche lui, e se ne rallegrò tutto. Chiuse gli occhî, stette immobile e aspettò con intenso desiderio questo sonno benefico.

      Ma no, ch'esso non venne. Tornavano invece le imagini strane; prima senza senso, senza nesso, spropositate, confuse; quindi a poco a poco più nette e precise; le imagini di tutto il suo passato, che si posero a sfilargli innanzi alla mente, insistenti alcune, le più spiacevoli ribelli alla sua volontà, che si sforzava a scacciare lontano.

      Ed ecco qual era il suo passato.

      IV

      Figliuolo d'un uomo che doveva dirsi il fiore degli egoisti e di una donna dalla testa leggiera e dalla condotta compagna, egli era nato cogli amori d'un prodigo e le passioni d'un libertino. Suo padre lo trattava come un cane, ed egli odiò suo padre; conobbe presto le sregolatezze della madre, ed egli disprezzò sua madre. Dovette assistere a scene terribili, ignobili, fra genitori, che gli tolsero per essi ogni rispetto e riguardo. Il padre non aveva che un mezzo per tenerlo sommesso e disciplinato: il rigore, e ne abusava. Il giovinetto conobbe tutti i generi di punizione che un padre senza cuore possa infliggere a un figliuolo recalcitrante.

      La madre un bel dì scappò di casa con non so quale avventuriere, e la rabbia, la vergogna del marito abbandonato si convertirono in altrettanta maggiore persecuzione verso il figliuolo. Questi pensò ancora egli più volte di sottrarsi colla fuga ad un'esistenza divenuta insopportabile; ma dove andare? e come vivere?

      A quattordici anni credette poter procurarsi un mezzo di scampo. Un suo compagno di scuola, più vecchio di lui, gli parlò del giuoco: Lorenzo riuscì a rubare uno scudo dal taschino del panciotto di suo padre, a letto addormentato, e si fece condurre in una bisca. Guadagnò, e il suo guadagno subito consumò in luoghi sconci, per tornare a casa ad ora indebita, senza più un soldo e ubbriaco. Furibonda fu la collera del padre, e degni di essa gli effetti. Lorenzo, schiaffeggiato, cacciato a calci nello stambugio che gli serviva da camera, vi doveva rimanere prigione una settimana a pane ed acqua. Uscì di là più invelenito, e con nel sangue già violente le destatesi passioni del giuoco e della dissolutezza.

      In quel tempo entrò in casa come governante una giovane donna, fresca, grassoccia, colla volgare bellezza d'una florida salute, colle grossolane attrattive d'una carnosa robustezza, ed in breve fu la padrona. Era la Marianna.

      Lorenzo

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